1967: sei giorni per sopravvivere

I nuovi documenti confermano che Israele fece di tutto per scongiurare il conflitto

Da un articolo di Michael B. Oren

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L’autore di questo articolo Michael B. Oren, autore fra l’altro del volume “La guerra dei sei giorni. Giugno 1967: alle origini del conflitto arabo-israeliano”, Milano, Mondadori, 2004

Le grandi guerre della storia finiscono per diventare grandi guerre sulla storia. Dopo solo pochi anni da quando l’ultimo soldato è tornato dal campo di battaglia, le più evidenti verità circa la natura del conflitto e le ragioni che l’hanno reso inevitabile subiscono l’assalto di revisionisti e contro-revisionisti la cui veemenza fa a gara con quella dei combattimenti reali.
Poche di queste battaglie storiografiche sono tanto amare quanto quella che viene oggi combattuta sulle guerre arabo-israeliane, dove un drappello di sedicenti “nuovi storici” cinge d’assedio la narrazione fino a poco tempo fa inattaccabile della creazione e della sopravvivenza dello stato degli ebrei. L’insolita violenza del dibattito sulla storia arabo-israeliana è direttamente legata alla posta in gioco che è singolarmente alta. Gli avversari non competono semplicemente per un po’ di spazio sugli scaffali delle biblioteche universitarie. In realtà si scontrano su questioni che hanno un profondo impatto sulla vita di milioni di persone: la sicurezza di Israele, i diritti dei profughi palestinesi, il futuro di Gerusalemme. E i “nuovi storici” non fanno nemmeno finta di nascondere i loro obiettivi politici.
Pubblicate dalle maggiori case editrici accademiche e ampiamente celebrate dai recensori, le interpretazioni dei “nuovi storici” hanno già largamente soppiantato quelle tradizionali. Tale successo non sarebbe stato possibile senza i documenti diplomatici resi disponibili da vari archivi governativi sulla base della norma per la declassificazione dopo trent’anni, che permette l’accesso a materiali precedentemente secretati: una regola in vigore nella maggior parte dei paesi occidentali. Incartamenti resi disponibili, ad esempio, dal Public Record Office britannico e dai National Archives statunitensi gettano nuova luce sulla diplomazia degli anni ’40 e ’50, in particolare per quanto concerne i paesi arabi i cui archivi, invece, restano sigillati a tempo indefinito.
Ma quando si tratta di storia arabo-israeliana, non esiste raccolta documentaria che possa rivaleggiare con gli Archivi di Stato israeliani i quali, oltre a contenere un tesoro di resoconti di prima mano, sono particolarmente liberali nella loro politica di declassificazione. Tali documenti, letti in modo selettivo e tendenzioso, sono stati utilizzati a sostegno delle teorie revisioniste più estreme sulla guerra d’indipendenza del 1948 e sulla campagna del Sinai del 1956. Avvicinandosi il 40esimo anniversario della guerra dei sei giorni, la stessa metodologia viene ora utilizzata per infrangere i “miti” del 1967.
La controversia storica sul 1967 è particolarmente aspra. La convinzione che la guerra dei sei giorni sia stata imposta a Israele da un’alleanza di stati arabi votati alla sua distruzione, e che le conquiste territoriali israeliane siano state il risultato del suo legittimo esercizio del diritto di autodifesa in una guerra che aveva fatto tutto ciò che poteva per evitare, è stata fermamente condivisa da tutto l’arco politico israeliano. Ma il fatto che la destinazione finale di quei territori continui ad essere al centro del dibattito politico israeliano e di trattative in corso a livello internazionale fa della guerra del 1967 un obiettivo assai ghiotto per le reinterpretazioni revisioniste. Questi autori sembrando condividere la tesi – chiaramente sottintesa, quando non ancora esplicitamente affermata – che le scelte degli arabi abbiano avuto ben poco a che fare con lo scoppio delle ostilità nel 1967, e che Israele non solo non abbia saputo evitare la guerra, ma che anzi l’abbia attivamente sollecitata. L’ammassarsi di truppe egiziane nel Sinai, l’espulsione della Forza di Emergenza dell’Onu e la chiusura degli stretti di Tiran, i patti militari fra paesi arabi e l’impegno pubblicamente preso e ribadito di sradicare lo stato degli ebrei, tutto questo sarebbe stato provocato o gonfiato a dismisura da Israele per conseguire i suoi scopi di coesione interna, espansione territoriale o altri obiettivi reconditi. “La paura israeliana non aveva fondamento nella realtà – scrive ad esempio il giornalista di Ha’aretz Tom Segev nel suo recente libro sul 1967 – In verità non v’era alcuna giustificazione per il panico che precedette la guerra, né per l’euforia che si diffuse dopo di essa”.
La domanda è: queste conclusioni possono reggere a un chiaro e accurato esame storico? L’affermazione che Israele abbia voluto la guerra, abbia fatto poco o nulla per evitarla o l’abbia addirittura istigata, trova conferma nei documenti israeliani declassificati di quel periodo, l’arma favorita dei “nuovi storici”?
I dossier degli Archivi di Stato israeliani svelano molte cose sulla diplomazia e sul processo decisionale della politica israeliana di quel periodo, e su cosa i leader israeliani pensarono, temettero e si sforzarono di fare durante quelle fatidiche tre settimane di intensa attività diplomatica che portarono al 5 giugno 1967. Tuttavia, lungi dal suggerire che Israele abbia deliberatamente spinto verso il conflitto, i documenti mostrano che Israele si sforzò disperatamente di evitare la guerra e, fino alla viglia dello scontro, tentò ogni possibile strada nello sforzo di scongiurarla, anche a costo di far pagare un alto prezzo alla nazione in termini strategici ed economici.
I documenti diplomatici israeliani da poco resi disponibili, relativi al periodo precedente il 5 giugno 1967, offrono prove schiaccianti contro ogni accenno all’idea che Israele abbia voluto la guerra con gli arabi. Le decine di migliaia di dossier finora declassificati non contengono un solo riferimento al presunto desiderio di sviare l’opinione pubblica dalla situazione economica, di rovesciare i governanti arabi, di conquistare o occupare territori in Cisgiordania, nel Sinai o sulle alture del Golan. Al contrario, il quadro che emerge è quello di un paese e di una dirigenza leadership profondamente spaventati dall’idea di uno scontro militare e disperatamente tesi ad evitarlo quasi a qualunque costo. L’unica speranza di evitare la guerra, erano convinti gli israeliani, stava negli Stati Uniti. Ma l’amministrazione Johnson, benché favorevolmente disposta verso Israele, aveva le mani legate da vincoli di politica interna e dal suo divorante coinvolgimento in Vietnam. Questi limiti impedirono agli americani di prendere le decisioni che avrebbero potuto ripristinare nel Sinai e agli stretti di Tiran lo status quo precedente l’escalation, e frenare la deriva verso la guerra che il presidente egiziano Gamal Abdel Nasser aveva innescato.
Non si può nemmeno sostenere che Israele abbia sbagliato nel decidere per il ricorso alla forza. Assediato da un duro blocco economico, da patti militari fra i suoi vicini pesantemente armati con lo scopo dichiarato di attaccarlo e da centinaia di migliaia di soldati nemici ammassati ai suoi stretti e frastagliati confini, sarebbe stato il massimo dell’irresponsabilità se Israele, nel 1967, non avesse pianificato un’azione preventiva. Né si può incolpare Israele per aver brandito la minaccia della forza per spronare gli Stati Uniti a intervenire diplomaticamente. Le poche misure che Johnson affettivamente prese – la reiterazione degli impegni assunti dall’America su Tiran nel 1957, la proposta (peraltro non realizzata) di un convoglio internazionale nel Mar Rosso per forzare il blocco navale egiziano, le rimostranze presso i leader arabi – sono tutte direttamente attribuibili agli sviluppi paventati da Israele.
In ultima analisi, gli israeliani si trattennero dall’agire militarmente fino a quando non si esaurì anche l’ultima possibilità di composizione diplomatica, sebbene sapessero che ogni giorno d’attesa gli costava enormemente in risorse, preparazione e morale, rischiando di limitare gravemente i loro margini di manovra se la guerra alla fine fosse risultata inevitabile.
Alla luce dei documenti d’archivio, sembra che i “nuovi storici” avranno un bel daffare per dimostrare in modo convincente che Israele nel 1967 nutriva intenzioni ostili.

(Da: Jerusalem Post, 15.05.07)