60 anni fa l’Onu decretava la nascita di Israele

Il rifiuto arabo della risoluzione di spartizione del ’47 all’origine di guerre, lutti, occupazioni

image_1915In occasione del 60esimo anniversario della storica risoluzione dell’Assemblea Generale dell’Onu sulla creazione dello Stato di Israele (Risoluzione 181 del 29 novembre 1947 sulla spartizione del Mandato Britannico), pubblichiamo una sintesi storico-politica dei nodi del conflitto arabo-israeliano tratta dal capitolo “La travagliata ricerca della pace fra Israele, palestinesi e paesi arabi” in: M. Paganoni, “Ad rivum eundem: Cronache da Israele” (2006, Proedi, Milano).

Israele e Palestina non sono due entità distinte, una accanto all’altra, una occupata dall’altra. Israele e Palestina sono i due nomi con cui, nel corso della storia, popoli diversi hanno indicato la stessa terra.
La Terra d’Israele – sulla quale il popolo ebraico si formò e conobbe nell’antichità lunghi periodi di indipendenza – divenne successivamente la provincia di Palestina, governata da imperi più vasti: romano, bizantino, arabo, crociato, ottomano, britannico.
Tra la fine del XIX e la prima metà del XX secolo, quella Terra d’Israele sulla quale il sionismo (il movimento risorgimentale del popolo ebraico) aspirava ad esercitare il proprio diritto all’autodeterminazione era la stessa Palestina che il nazionalismo arabo considerava parte integrante e irrinunciabile delle terre arabe da riscattare e unificare.
È la terra che nel 1922 la Gran Bretagna decide di dividere in due parti, una al di là del fiume Giordano destinata a diventare un regno arabo; l’altra, tra il Giordano e il mar Mediterraneo, destinata ad ospitare la “sede nazionale” promessa agli ebrei dalla Società delle Nazioni.
È la terra – tra il fiume e il mare – che nel 1947 l’Onu decide di spartire una seconda volta, suddividendola in due Stati (con Gerusalemme sotto governo internazionale per dieci anni). Il 29 novembre 1947, infatti, con la risoluzione 181 l’Onu raccomanda la spartizione del Mandato Britannico in due stati, uno arabo e uno ebraico. È la risoluzione su cui si basa la dichiarazione di indipendenza dello Stato d’Israele (14 maggio 1948). Gli stati della Lega Araba si oppongono e scatenano la guerra. Israele riesce a difendere la propria esistenza. I territori destinati agli arabi palestinesi e la parte est della città di Gerusalemme cadono, invece, sotto occupazione giordana ed egiziana.
Dopo la guerra, i rapporti fra Israele e paesi confinanti vengono regolati da accordi armistiziali espressamente provvisori che “congelano” per quasi vent’anni la linea del cessate il fuoco (Linea Verde). Nel frattempo la guerra ha provocato anche lo sfollamento di alcune centinaia di migliaia di profughi: arabi di Palestina verso i territori sotto controllo arabo (dove vengono chiusi nei campi profughi), ebrei dai paesi arabi verso Israele (dove vengono integrati).
Dal 1949 al 1967 la questione arabo-israeliana è relativamente chiara. Israele vuole negoziare con i paesi vicini i termini di una pace stabile (confini definitivi, libertà di scambi e navigazione, apertura di ambasciate, garanzie reciproche sulla sicurezza, sforzo congiunto per la soluzione del problema dei profughi). I paesi arabi rifiutano l’esistenza di Israele, persistono a occupare terre palestinesi e varano una politica di assedio economico, diplomatico, propagandistico e terroristico di Israele, in attesa di una futura soluzione militare.
Il quadro cambia nel giugno 1967 quando l’assedio arabo genera l’escalation che sfocia nella “guerra dei sei giorni” al termine della quale i territori di Palestina, già occupati dagli stati arabi, passano sotto controllo israeliano. Israele spera di poterne usare una parte per ottenere in cambio la pace. Gli stati arabi rispondono con “i no di Khartoum” al riconoscimento e alla pace con Israele (1 settembre 1967).
Il 22 novembre 1967 il Consiglio di Sicurezza approva la risoluzione 242 che in sostanza dice a Israele e paesi arabi: non avete il diritto di “acquisire territori con la guerra”, quindi dovete negoziare per arrivare a una pace “giusta e duratura”. Il negoziato dovrà ispirarsi ad alcuni punti: un “ritiro delle forze israeliane entro confini sicuri e riconosciuti”, la “fine di ogni pretesa o stato di belligeranza”, il “rispetto e il riconoscimento della sovranità, integrità territoriale e indipendenza politica di ogni stato della regione”. Con la 242 l’Onu non dice quale debba essere il confine fra Israele e arabi, né fa cenno alla creazione di nuovi stati indipendenti. Quello che dice a Israele e vicini arabi è che devono concordare un confine e rispettarlo, e che bisogna trovare una soluzione ai problema umano dei rifugiati.
Israele accetta la 242 e si dichiara pronto a negoziarne l’applicazione con ogni stato arabo disponibile. I trattati di pace con l’Egitto (1979) e con la Giordania (1994) verranno infatti stipulati sulla base della 242.
Con gli Accordi-Quadro di Camp David del 1978 Israele va oltre: accetta il principio che la 242 venga applicata anche al caso dei palestinesi, come fossero uno degli “stati della regione” citati dalla risoluzione. In altre parole: lo stato arabo-palestinese non c’è (i paesi arabi ne hanno impedito la nascita), ma in futuro ci sarà e dunque può trattare come se fosse l’Egitto o la Giordania. È un’interpretazione che potrebbe aprire la strada a negoziati diretti fra israeliani e palestinesi, ma nel 1978 il mondo arabo (Egitto a parte) rifiuta gli Accordi di Camp David e il negoziato con Israele.
Sul piano giuridico-diplomatico il “fronte del rifiuto” arabo paralizza la situazione per altri quindici anni. Solo allora, infatti, dopo la sconfitta delle forze militari palestinesi in Libano (estate 1982), lo scoppio della prima rivolta dei palestinesi nei territori occupati (dicembre 1987) e la fine della guerra fredda (1989), l’Olp accetta di riconoscere Israele (scambio di lettere del 9 settembre 1993). Con la stretta di mano Rabin-Arafat e la firma della Dichiarazione di Principi (13 settembre 1993) e dell’Accordo ad interim (28 settembre 1995), si avvia il processo di pace israelo-palestinese (processo di Oslo) basato su: riconoscimento reciproco, ripudio di violenza e terrorismo a favore del negoziato, applicazione graduale di accordi transitori con la nascita di un’Autorità Palestinese provvisoria, sino alla firma di un accordo definitivo che porrà fine al conflitto e a ogni ulteriore rivendicazione.
Il processo di Oslo non si ferma con l’assassinio di Yitzhak Rabin (4 novembre 1995). Nei mesi successivi, benché continuino gli attentati, Shimon Peres ritira le forze israeliane dalle città palestinesi (dicembre 1995) e indice le prime elezioni palestinesi nei territori (20 gennaio 1996). Negli anni seguenti Benjamin Netanyahu, sebbene contrario a Oslo, non si discosta dallo schema: incontro con Arafat (4 settembre 1996), accordo su Hebron (15 gennaio 1997), Memorandum di Wye Plantation (23 ottobre 1998).
L’apice viene raggiunto da Ehud Barak che, al summit di Camp David del luglio 2000, e di nuovo nel dicembre accettando la formula Clinton, offre a Yasser Arafat un accordo definitivo con la nascita di uno stato palestinese sul 97% dei territori e capitale a Gerusalemme est, più indennizzi per i profughi. Ma Arafat rifiuta. Scrive Dennis Ross, allora consigliere della Casa Bianca: “Arafat non fu in grado di porre fine al conflitto. Accordi parziali erano per lui sempre possibili, un accordo complessivo no. Poteva convivere con un processo, non con la sua conclusione”.
Scoppia nel frattempo l’intifada al-Aqsa, la più massiccia ondata di attentati stragisti subita dalla società israeliana. Mentre naufragano vari tentativi internazionali di far cessare le violenze (Commissione Mitchell, mediazioni Tenet e Zinni), nella primavera 2002 Israele reagisce agli attentati rientrando nelle città palestinesi (Operazione Scudo Difensivo) e isola Arafat, asserragliato con un gruppo di terroristi nel suo quartier generale a Ramallah.
A questo punto il Consiglio di Sicurezza adotta la risoluzione 1397 (12 marzo 2002) che, facendo propria la lettura della 242 allargata ai palestinesi, afferma “la prospettiva di una regione in cui due stati, Israele e Palestina, vivano fianco a fianco entro confini sicuri e riconosciuti”. Ancora una volta, coerentemente, l’Onu non dice quali debbano essere i futuri confini, né prescrive ricette per risolvere nodi come Gerusalemme, i profughi ecc. Ma afferma che lo stato di Israele e il (futuro) stato di Palestina devono “riprendere i negoziati per una composizione politica” e che per farlo è necessario innanzitutto che “cessi ogni atto di violenza, comprese tutte le forme di terrorismo, provocazione, istigazione e distruzione”.
Ma il terrorismo non cessa. Il 23 aprile 2003 il Quartetto Stati Uniti, Unione Europea, Russia e Onu formula un piano detto Road Map, che rilancia la soluzione “due stati” secondo un calendario di tappe ravvicinate che prevede innanzitutto la cessazione del terrorismo. Il 4 giugno il primo ministro israeliano Ariel Sharon e il primo ministro palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) si incontrano ad Aqaba, in Giordania, e sottoscrivono la Road Map. Alla fine del mese alcune fazioni palestinesi concordano di rispettare una hudna (tregua provvisoria), ma già ad agosto l’ennesimo attentato suicida uccide 22 persone su un autobus di Gerusalemme. Poco dopo, mentre Abu Mazen è costretto da Arafat a rassegnare le dimissioni, Israele reagisce con una campagna mirata contro i capi di Hamas (uccisioni di Ahmad Yassin e Abd al-Aziz Rantisi).
L’11 novembre 2004, a Parigi, muore Arafat. Sharon, considerando il netto ridimensionamento subito dal terrorismo (grazie anche all’avvio della costruzione di una barriera difensiva fra Israele e territori palestinesi), ma anche la mancanza di un interlocutore negoziale affidabile, lancia il ritiro unilaterale di civili e militari israeliani dalla striscia di Gaza (agosto 2005), nella convinzione che esso risponda a vitali interessi israeliani (economici, militari, diplomatici, demografici).
Il 28 gennaio 2005 i palestinesi eleggono al posto di Arafat il più realista Abu Mazen che, in un incontro con Sharon a Sharm el Sheikh, si impegna a far cessare ogni violenza anti-israeliana. Ma un anno dopo, alle elezioni parlamentari, attribuiscono la maggioranza assoluta dei seggi a Hamas, potente organizzazione fondamentalista palestinese, responsabile di molte stragi terroristiche e contraria all’esistenza dello stato di Israele.
Nel dicembre 2005 Sharon esce di scena, colpito da ictus cerebrale. Poco dopo, nel marzo 2006, il successore Ehud Olmert vince le elezioni dichiarando: “Procederemo con ulteriori ritiri unilaterali: non abbiamo intenzione di aspettare per anni che Hamas si decida a riconoscere il diritto di Israele ad esistere”. È il cosiddetto piano di “convergenza” o “riallineamento”: concentrare gli insediamenti in pochi grandi blocchi a ridosso della Linea Verde, e ritirarsi dal resto della Cisgiordania.
Sembra di essere a un passo dalla effettiva separazione dei due popoli. Ma per tutti i mesi che vanno dall’estate 2005 all’estate 2006 organizzazioni armate palestinesi lanciano centinaia di razzi Qassam dalla striscia di Gaza sul territorio israeliano. Intanto trasformano gli ex insediamenti israeliani in depositi di armi e campi di addestramento. La situazione precipita quando, il 25 giugno 2006, un commando congiunto Hamas-Brigate al Aqsa attacca una postazione in territorio israeliano, uccide due soldati e ne sequestra uno come ostaggio (Gilad Shalit). Poco dopo, il 12 luglio, con un’analoga operazione sul confine nord, Hezbollah uccide otto soldati e ne prende in ostaggio due (Ehud Goldwasser e Eldad Regev). Le Forze di Difesa israeliane, sotto la guida del ministro della difesa laburista Amir Peretz, reagiscono con operazioni militari in profondità nella striscia di Gaza e in Libano meridionale. Ma la guerra contro gruppi terroristici fanatici, ben armati e sovvenzionati e che si fanno sistematicamente scudo dei civili palestinesi e libanesi, si rivela molto difficile, sanguinosa e dal risultato incerto. E gli Hezbollah, sponsorizzati da Teheran e Damasco, rivelano la potenza di fuoco accumulata negli anni lanciando in 33 giorni di combattimenti più di quattromila missili sulle città di tutto il nord di Israele. La popolazione israeliana, costretta – come quella libanese – a sfollare o nascondersi nei rifugi, resiste con grande determinazione. Ma l’ipotesi politica del ritiro dalla Cisgiordania patisce un duro colpo dall’attacco congiunto subito da Israele sui confini internazionalmente riconosciuti a nord e a sud. “Il pubblico israeliano – spiega Shimon Peres nel settembre 2006 – non si fida più dopo che i terroristi hanno approfittato dei ritiri per trasformare striscia di Gaza e Libano meridionale in roccaforti da cui continuare a colpire Israele”. Arduo si profila il compito della forza Onu Unifil, rafforzata con la risoluzione 1701 del l’11 agosto 2006, di aiutare Beirut a ripristinare la propria sovranità sul suo territorio impedendo che venga di nuovo trasformato in fronte di guerra dai nemici giurati dell’esistenza di Israele.

Da: M. Paganoni, “Ad rivum eundem: cronache da Israele”, Proedi, Milano

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Nella foto in alto: La folla a Tel Aviv la sera del 29 novembre 1947