A dieci anni dal ritiro, la lezione di Gaza

Israele non vuole una replica in Cisgiordania di quanto è successo nel Libano meridionale, a Gaza e nel Sinai

Editoriale del Jerusalem Post

Maggio 2000: ritiro israeliano dal sud del Libano

Maggio 2000: ritiro israeliano dal sud del Libano

Dieci anni dopo che Israele ha sgomberato le comunità ebraiche dalla striscia di Gaza e parte del nord della Samaria (Cisgiordania), sono molto pochi gli israeliani – sia a destra che a sinistra che al centro – ancora disposti a sostenere senza se e senza ma quello che venne definito “il disimpegno”.

Il leader dell’opposizione Isaac Herzog ha recentemente definito quel ritiro un “errore”, e lo stesso ha fatto qualche tempo fa l’ex presidente d’Israele Shimon Peres. Anche Benjamin Netanyahu, che pure il 26 ottobre 2004 aveva votato a favore del piano di disimpegno, rassegnò le dimissioni in segno di protesta l’8 agosto del 2005, poco prima che fosse attuato, e da allora lo ha sempre criticato.

L’opinione pubblica israeliana si è spostata in modo significativo in questi ultimi dieci anni. Se nei mesi che precedettero il ritiro veniva registrata costantemente una forte maggioranza a favore del ritiro, un recente sondaggio mostra che la situazione è cambiata. Secondo il sondaggio condotto nel mese di luglio per conto del Begin-Sadat Center of Strategic Studies, il 63% degli intervistati afferma che all’epoca era contrario allo sgombero, e il 51% dice addirittura che gli israeliani dovrebbero tornare nella striscia di Gaza. Chiaramente diversi intervistati hanno proiettato sul passato il loro sentimento attuale di rammarico circa il ritiro.

Tuttavia sarebbe ingiusto sostenere che il disimpegno abbia portato solo danni a Israele. Dal punto di vista demografico, Israele ha cessato di essere responsabile per oltre un milione di palestinesi che vivono nella striscia di Gaza. Oggi qualsiasi discussione sulla “bomba demografica a tempo” – l’argomento più forte contro ogni ipotesi di annessione o di soluzione ad un solo stato – può escludere dall’equazione i palestinesi di Gaza. E sebbene i critici sostengano che il ritiro ha scatenato i lanci di razzi e i colpi di mortaio, la realtà è che le comunità ebraiche sia all’interno della striscia di Gaza che nelle zone circostanti erano state ripetutamente attaccate già prima del disimpegno. Il primo missile Qassam venne sparato dai palestinesi di Gaza nel 2001, e furono molte di più le vittime, sia civili che militari, subite prima del disimpegno che dopo. Meno di 9.000 ebrei vivevano in mezzo a più di un milione di palestinesi violentemente ostili alla loro stessa esistenza. Aspettarsi che le Forze di Difesa israeliane li difendessero per tutto il tempo non era ragionevole.

Sinai: restituito all’Egitto con il Trattato di pace del 1979. Alture del Golan: ritiro e disimpegno delle forze nel 1974. Libano sud: ritiro israeliano dalla fascia di sicurezza nel maggio 2000. Striscia di Gaza: ritiro israeliano nell’agosto 2005.

Inoltre Israele ha raccolto alcuni frutti diplomatici del ritiro. Forse il più significativo è stata la lettera redatta nel 2004 dall’allora presidente degli Stati Uniti George Bush e approvata dalla stragrande maggioranza di entrambe le camere del Congresso, in cui si dice che i grandi blocchi di insediamenti in Giudea e Samaria (Cisgiordania) rimarranno parte integrante di Israele nel quadro di qualsiasi soluzione a due stati, e che il problema dei profughi palestinesi troverà soluzione dentro il futuro stato palestinese, e non dentro Israele. Quella lettera ha segnato un importante punto di svolta nella politica americana che aveva tradizionalmente considerato indistintamente tutti gli insediamenti come un ostacolo alla pace.

Detto tutto questo, però, l’insegnamento forse più grande che ci viene dal disimpegno di Gaza coincide con quello che è anche il suo più grande difetto: il ritiro ha dimostrato una volta per tutte quanto sia folle fare concessioni territoriali unilaterali. Lo scenario che si è realizzato dopo il ritiro unilaterale dell’esercito israeliano dal Libano meridionale nel maggio 2000, e che ha portato all’ascesa e al rafforzamento di Hezbollah, si è puntualmente ripetuto a Gaza. Meno di due anni dopo lo sgombero di Israele dalla striscia, con un sanguinoso colpo di stato Hamas ne estrometteva Fatah e ne prendeva il controllo. Ciò avvenne in gran parte perché il ritiro israeliano venne visto, perlomeno agli occhi dei palestinesi, come un successo del terrorismo e dei lanci di razzi di Hamas: dove le trattative non erano riuscite a ottenere concessioni territoriali, sostennero in modo convincente i fautori di Hamas, ci erano riusciti la violenza e il terrorismo.

Il successo di Hamas a Gaza nel procurarsi di contrabbando razzi sempre più grandi e più letali e a gittata sempre più a lunga, ha insegnato a Israele l’importanza di mantenere il controllo sui confini nel quadro di qualsiasi futura concessione territoriale ai palestinesi. La stessa lezione ci viene impartita dalla penisola del Sinai, tornata all’Egitto grazie agli accordi di pace di Camp David, e che oggi, sotto il controllo del Cairo, è degradata nel caos, sopraffatta da violente tribù beduine e da gruppi spietati legati ad al-Qaeda e allo “Stato islamico” (ISIS). Ecco dove nasce l’insistenza di Israele per mantenere il controllo sulla Valle del Giordano come condizione essenziale per la concessione di maggiore autonomia territoriale ai palestinesi in Cisgiordania.

Israele non vuole una replica in Cisgiordania di quanto è accaduto nel Libano meridionale, nella striscia di Gaza e nella penisola del Sinai.

Anche se l’opinione pubblica si è spostata negli ultimi dieci anni, da quando avvenne il ritiro del 2005 da Gaza e dal nord della Samaria, è sbagliato sostenere che quel disimpegno sia stato un completo fallimento. Ma la lezione forse più importante che si deve trarre da quel disimpegno è il potenziale pericolo insito nelle concessioni territoriali. Qualunque futura soluzione a due stati dovrà essere raggiunta mediante negoziati diretti con i palestinesi (certo non con pressioni unilaterali esercitate solo su Israele), e dovrà prevedere ferree misure di sicurezza. Ecco cosa bisogna tener bene a mente, a dieci anni dal ritiro da Gaza.

(Da: Jerusalem Post, 27.7.15)