A due anni dal sequestro di tre israeliani in Libano e Gaza

Gli atroci dilemmi di una società sensibile e aperta, sotto il feroce ricatto dei terroristi

image_2164IL CUORE D’ISRAELE
Da un articolo di Eitan Haber
Anni fa mi capitò di vedere con i miei occhi la sorella di un soldato israeliano scomparso, probabilmente nelle mani di un gruppo terrorista, balzare letteralmente sulla scrivania del ministro della difesa, alla presenza di sei alti ufficiali delle forze armate, e gridare fra le lacrime: “Portare a casa mio fratello, portate a casa mio fratello!”. È una cosa che non potrebbe accadere in nessun altro paese al mondo per la semplice ragione che in qualunque altro paese la sorella non sarebbe nemmeno arrivata nell’ufficio del ministro della difesa, per non dire in quello del primo ministro. Al massimo sarebbe stata ricevuta da qualche alto funzionario che l’avrebbe congedata senza nulla di concreto.
Sarebbe interessante esaminare le radici di questa tradizione ebraico-israeliana che spinge ad esercitare una così profonda sensibilità verso la vita dei soldati dispersi o sequestrati e le spoglie dei caduti in guerra. E sarebbe interessante chiedersi come mai le Forze di Difesa israeliane sacrificano la vita di soldati e comandanti – è successo in tutte le guerra d’Israele – pur di recuperare i corpi dei caduti dal campo di battaglia.
Nel 1994, ad esempio, 82 soldati e ufficiali fra i migliori combattenti che il popolo d’Israele abbia mai avuto furono mandati in missione profondamente all’interno del Libano con il compito di catturare il capo di Amal Mustafa Dirani che forse, sottolineo forse, sapeva qualcosa della sorte dell’aviatore Ron Arad caduto nelle mani di Amal otto anni prima. [Dirani avrebbe poi rivelato d’aver venduto l’ostaggio per 300mila $ a Hezbollah, il quale a sua volta l’avrebbe trasferito alle Guardie Rivoluzionarie iraniane] Si è mai pensato a cosa sarebbe successo, a quale sarebbe stata la reazione dell’opinione pubblica israeliana se i due elicotteri che trasportavano gli 82 commando fosse precipitati? Se fosse accaduto qualcosa del genere, cosa avrebbero detto coloro che oggi accusano lo stato di Israele di non fare niente per i suoi cittadini in ostaggio?
In qualunque altro paese del mondo, o quasi, dei soldati catturati e certamente di quelli dispersi ci si occupa molto meno, in molti casi vengono semplicemente considerati come caduti. Molti paesi non danno alcuna possibilità di farsi ricattare, né di avviare qualche forma di trattativa (sebbene negli ultimi anni l’atteggiamento perlomeno verso gli ostaggi di gruppi terroristi stia cambiando nel senso di fare degli sforzi per liberarli). C’è una grande forza diplomatica e militare dietro al rifiuto di mercanteggiare, un po’ come se quei governi dicessero ai ricattatori: fate quello che volete, da noi non otterrete assolutamente nulla.
Tutti i primi ministri e ministri della difesa israeliani, nel corso degli anni, hanno sempre deciso e agito in modo totalmente opposto a ciò che suggerivano la ragione e l’interesse nazionale del paese. Tale interesse, se avessero agito in base ad esso, avrebbe dettato una posizione dura e inflessibile del tipo: signori ricattatori, andate all’inferno.
Ma in questi casi non è la ragione quella che detta i comportamenti di un primo ministro e di un ministro della difesa israeliani. È piuttosto il loro cuore, e per questo continuiamo a pagare un prezzo terribile, pesantissimo e intollerabile. Ma è proprio questo che fa la differenza fra Israele e tanti altri paesi ed eserciti.
(Da: YnetNews, 23.06.08)

LA DOMANDA CHE RESTA DA PORSI
Da un articolo di Shlomi Barzel
(…) In fin dei conti, la cosa più scorretta sarebbe che la decisione sul prezzo per lo scambio di prigionieri ricadesse proprio sui famigliari di Goldwasser, Regev e Shalit. Ma è difficile scrollarsi di dosso il senso di amarezza che nasce dalla loro determinazione a pagare qualunque prezzo in cambio del ritorno dei loro cari. È una determinazione umanissima, ma purtroppo illogica.
Qui ci sono tre famiglie che chiedono allo stato di Israele e alle persone che ne sono alla guida di pagare qualunque prezzo pur di ricevere in cambio i loro congiunti. A tale scopo la famiglia Shalit è disposta a mettere a rischio il cessate il fuoco con Hamas (e tutti gli israeliani che vivono attorno alla striscia di Gaza), e le famiglie Goldwasser e Regev si rifiutano di riconoscere la differenza che passa tra il ritorno di prigionieri ancora vivi e il ritorno, Dio non voglia, di salme di caduti.
La vita di tutte e tre queste famiglie e del loro ordine di priorità è stata irrevocabilmente sconvolta un giorno preciso, il giorno del sequestro dei loro cari. Da quel giorno in poi, per loro, le necessità del singolo hanno preso il sopravvento sulle necessità del bene comune. La loro lotta viene condotta in pubblico, dietro le quinte, davanti alla Corte Suprema, nelle piazze. È una battaglia senza confini. Un’altra dolorosissima battaglia, come quelle combattute dalla famiglia Arad e, con successo, dalle famiglie Avitan, Avraham e Sawaid che nel 2004 recuperarono le spoglie dei loro figli, insieme al controverso faccendiere Elhanan Tennenbaum rapito da Hezbollah, in cambio della scarcerazione di centinaia di terroristi.
Lo stato d’Israele vanta precedenti straordinari in fatto di recupero dei suoi soldati caduti in mani nemiche. Non è facile individuare la logica che sta dietro a questa tradizione. È frutto della disponibilità a pagare sempre qualunque prezzo o di una ponderata gestione degli scambi di prigionieri? Il risultato finale, nonostante il caso di Ron Arad, è che la quasi totalità dei soldati israeliani sono stati riportata a casa, vivi o morti, indipendentemente dalle circostanza che li avevano visti scomparire.
Israele paga un prezzo pesantissimo in ciascuna occasione, ma questo non è ancora sufficiente per impedire che sorgano dubbi sulla fattibilità di ogni singolo scambio o sulla quantità di tempo necessario per riportare a casa i nostri figli. È sempre qualcosa che resta legato ai singoli negoziati e al loro esito, soprattutto oggi in un’epoca in cui le trattative si svolgono praticamente sotto gli occhi di tutti.
Ma può anche darsi che il sostegno dell’opinione pubblica per la richiesta delle famiglie Regev, Goldwasser e Shalit di pagare qualunque prezzo renda in realtà sempre più difficile il ritorno dei tre soldati. Ogni dichiarazione che viene fatta in questo senso, ogni riga di lettera, ogni filmato che documenta il loro incubo, ogni sondaggio che attesta il sostegno della gente per la loro posizione potrebbe convincere i nemici ad alzare sempre di più il prezzo. Potrebbe convincerli che non sia una buona idea arrivare a un prezzo finale.
Forse dovrebbero essere proprio le famiglie a dimostrarsi più ferme, perlomeno in pubblico, lasciando che sia lo stato a fare il magnanimo, soprattutto in mancanza di qualunque informazione che indichi che qualche forma di pressione pubblica abbia influenzato il prezzo per il ritorno dei soldati.
Le famiglie degli ostaggi vivono nella convinzione di poter ottenere il ritorno dei loro cari. Non c’è pietra che non solleverebbero, non c’è iniziativa a cui sarebbero disposti a rinunciare. Il loro senso del tempo è apocalittico, basato sull’idea che la salute dei loro congiunti, forse la loro stessa salute durante la infernali trattative, possa solo peggiorare. Il loro impegno verso i loro figli è assoluto. Questi sono fatti nudi e crudi. Ma la domanda che resta da porsi è: alla fine dei conti, la loro strategia è più vantaggiosa o più dannosa?
(Da: Ha’aretz, 24.06.08)

MANCANO CRITERI CHIARI E CERTI
Da un articolo di Yossi Melman
(…) L’amara verità è che tutti i governi israeliani hanno continuato a pronunciare parole ambiziose come “non cederemo mai al ricatto dei terroristi” continuando di volta in volta a cedere alle estorsioni dei terroristi, a cominciare dal dirottamento del primo aereo El Al ad Algeri nel 1968. Vi sono state persino occasioni in cui Israele ha scarcerato detenuti e restituito salme in cambio di brandelli di informazioni, o soltanto di effetti personali di soldati dispersi, come anche nel caso di Ron Arad. E a proposito di Arad, c’è da dubitare che qualunque altro paese si sarebbe adoperato così tanto, impegnando i suoi migliori agenti, rischiando i suoi migliori combattenti e spendendo decine di milioni di dollari nel tentativo di scoprire qualcosa sulla sorte di un singolo soldato.
Israele dovrebbe formulare una politica netta che fissi dei criteri certi, che siano chiari una volte per tutte anche ai nemici. Il principio di fondo dovrebbe essere: salme in cambio di salme, prigionieri in cambio di un limitato numero di prigionieri. Un rapporto di 10 a 1 dovrebbe essere più che ragionevole.
Ma questa politica dovrebbe essere formulata e proclamata in anticipo e non a posteriori. Ormai potrebbe essere fatto solo dopo aver chiuso la trattativa in corso con Hezbollah e con Hamas. Non sarebbe certo da eroi scaricare ora gli insuccessi passati di Israele in questo campo sulle fragili spalle di Regev, Goldwasser e Shalit, presentando ipocritamente gli accordi che stanno prendendo forma oggi come il peggiore disastro per la sicurezza del paese, magari detto da chi sui precedenti scambi non aveva avuto nulla da obiettare.
(Da: Ha’aretz, 25.06.08)

DIRITTO MORALE
Da un articolo di Israel Hasson
Si immagini che Israele disponga di notizie certe che gli ostaggi sono tutti vivi, e che i rapitori chiedano la scarcerazione di 53 terroristi in cambio del rilascio degli ostaggi. Ora si immagini che gli ostaggi non siano tre, bensì 105. E cosa fa il governo israeliano? Rifiuta seccamente il ricatto. Bene, non è una situazione immaginaria. È quello che accadde realmente nel giugno 1976, prima dell’Operazione a Entebbe.
Certo, i due casi sono molti diversi. Ma c’è un principio che dovrebbe restare lo stesso: bisogna respingere l’idea che si debba ottenere il rilascio degli ostaggi a qualunque prezzo. Tenendo anche presente il fatto che, fino ad oggi, non c’è stato uno solo scambio di prigionieri che non abbia visto dei terroristi scarcerati tornare a uccidere. E anche questo è un prezzo.
Ma c’è un’altra considerazione morale, non meno importante. La trattativa “a qualunque prezzo” compromette gli sforzi dei nostri migliori combattenti, alcuni dei quali hanno anche perso la vita per cercare di liberare ostaggi o trovare informazioni su di loro. Chi oggi approva la scarcerazione di terroristi in cambio degli ostaggi, e a qualunque prezzo, perde il diritto morale di mandare domani altri combattenti in battaglia per trovare o liberare dei prigionieri. Se Israele può liberare dei terroristi per ottenere il rilascio degli ostaggi, come può poi rischiare la vita dei propri soldati per ottenere il rilascio di altri ostaggi? E chi guarderà negli occhi i famigliari di quei soldati che sono andati a combattere e sono caduti nella guerra in Libano dell’estate 2006 per riconquistare a Israele la sua forza deterrente e cercare di liberare gli ostaggi?
(Da: YnetNews, 25.06.08)

LIBERARE GILAD SHALIT?
Da un articolo di Stewart Weiss
Liberare Gilad Shalit? No, ahimè, il punto interrogativo non è un refuso. È la sintesi dell’immane conflitto che il paese e il governo devono affrontare, l’ultimo straziante dilemma in cui ci hanno gettato i nostri spietati nemici. Siamo intrappolati in un gigantesco braccio di ferro tra il cuore e il cervello, una lotta tra logica ed emozioni.
Da una parte ci identifichiamo tutti con la famiglia Shalit e sentiamo il loro dolore: chi di noi non andrebbe fino in capo al mondo per riportare a casa un figlio sano e salvo? L’abbandono di un soldato è un peccato mortale, che oltretutto demoralizza sia i combattenti sul campo di battaglia sia le famiglie che li hanno visti partire. Su un piano etico ed ebraico la vita umana, ogni singola vita umana, è quanto di più prezioso e non è trattabile.
Alle stesso tempo, però, c’è la questione del bene comune. Se tutta la società dovesse soffrire per aver pagato un prezzo troppo alto per Gilad, e se il bilancio dei morti dovesse aumentare improvvisamente a causa del riscatto, allora avremmo il dovere di fermarci prima di gettarci in un accordo troppo disastroso. La storia passata in Medio Oriente dimostra che la maggior parte dei terroristi scarcerati torna a fare ciò che sa fare meglio: uccidere israeliani innocenti. E quando i criminali si convincono che il crimine paga, sono ancora più motivati a insistere con le loro vili azioni.
Bontà e cattiveria non sono sempre facili da distinguere. Essere morbidi con i fuorilegge, attenuare le pene e perdonare i crimini possono sembrare gesti di clemenza, ma se si traducono nella morte di altri innocenti allora sono tutto tranne che questo. Gli israeliani sono già sconcertati e mortificati per il nostro continuo rifornire di beni e servizi i nostri nemici, che se la ridono della nostra debolezza d’animo e sfruttano il nostro altruismo per aggredirci. Nella maggior parte dei paesi civili, aiutare e favorire il nemico in tempo di guerra si chiama alto tradimento, ma noi qui ci macchiamo di alto tradimento in continuazione a livello nazionale. E ora dovremmo riconsegnare numerosi terroristi alle loro attività omicide, rafforzando pure Hamas che è votata al nostro totale annichilimento?
Dobbiamo procedere con estrema cautela in questo campo minato morale, in modo da non superare la linea che separa ciò che sembra bene da ciò che è bene. Non possiamo accettare qualunque ricatto e piegarci a qualunque condizione, anche a costo della sicurezza nazionale.
Portando il concetto alle estreme conseguenze, chiunque può capire che non possiamo accettare qualunque folle condizione ci venga imposta dalla parte avversa. Per assurdo, anche i più possibilisti , non accetterebbero di scarcerare l’assassino Yigal Amir il quale, dopotutto, essendo riuscito a uccidere un primo ministro israeliano, potrebbe aspirare all’ammirazione dei palestinesi…
I famigliari degli ostaggi vivono più di tutti questo conflitto morale. Pur essendo tutti prontamente d’accordo sulla necessità di portare in salvo i nostri eroi dalle mani del nemico, dobbiamo anche ricordare quanto valorosamente i nostri figli hanno combattuto – e talvolta sono morti – per cercare di mettere dietro le sbarre questi omicidi seriali. Su quali basi dovrei accettare di “liberare” il terrorista della Jihad Islamica che ha ucciso mio figlio?
(Ari Weiss, figlio dell’autore di questo articolo, è caduto nel settembre 2002 in uno scontro armato con terroristi jihadisti palestinesi)
(Da: Jerusalem Post, 24.06.08)

Nella foto in alto: Noam Shalit, padre dell’ostaggio a Gaza Gilad Shalit, mentre aspetta il verdetto della Corte Supremo dove ha fato ricorso contro la decisione del governo di riaprire i valichi con la striscia di Gaza come parte del cessate il fuoco con Hamas. La Corte ha respinto il ricorso