A Milano, il Catalogo dei Manoscritti Ebraici della Biblioteca Apostolica Vaticana

I testi delle relazioni di Mordechay Lewy, Ambasciatore d'Israele presso la Santa Sede, dei curatori dell'opera Benjamin Richler e Malachi Beit-Arié, di mons. Pier Francesco Fumagalli, vice-prefetto dell'Ambrosiana

image_2390Su iniziativa dell’Associazione Italiana Amici dell’Università di Gerusalemme, il 31 gennaio 2009 si è tenuta a Milano la prima presentazione italiana del volume “Hebrew Manuscripts in the Vatican Library” (Catalogo dei Manoscritti Ebraici della Biblioteca Apostolica Vaticana) a cura di Benjamin Richler, Malachi Beit-Arié, Nurit Pasternak, della Jewish National and University Library di Gerusalemme.
Introdotti dall’Ambasciatore d’Israele presso la Santa Sede, Mordechay Lewy, alla manifestazione sono intervenuti i Curatori dell’opera e mons. Pier Francesco Fumagalli, vice-prefetto dell’Ambrosiana.

Quelli che seguono sono i testi delle relazioni.

MORDECHAY LEWY
AMBASCIATORE D’ISRAELE PRESSO LA SANTA SEDE
Non capita tutti i giorni di riunirci in una sede così splendida come quella del Museo Diocesano. Anche l’occasione è splendida: siamo qui per celebrare insieme il risultato finale di una lunga collaborazione tra due eminenti istituti culturali. Quando si tratta di manoscritti ebraici, questi istituti, ciascuno un Kiryat Sefer o Civitas Litterarum in sé, sono probabilmente i più importanti al mondo.
Benché non sia un esperto in manoscritti, questa circostanza ha acceso la mia immaginazione e mi sono chiesto se i ricercatori – ai quali do il benvenuto qui – mentre sfogliavano i manoscritti, pagina per pagina, abbiano usato i guanti per non rischiare l’avvelenamento – ricordiamo le investigazioni di Guglielmo da Baskerville! Poiché li vedo tutti qui, vivi e in buona salute, possiamo concludere che sono sopravvissuti a questa potenziale minaccia.
Saranno altri a parlare dell’importanza dei manoscritti e di come la collezione Ebraica sia venuta in essere: essa riflette una parte significativa della storia della Vaticana e delle passate relazioni tra gli Stati Pontifici e gli Ebrei Italiani. Desidero, tuttavia, come osservatore, precisare due punti.
I manoscritti, come dice il termine stesso, hanno a che fare con la scrittura, ovvero con testi scritti a mano. Noi dobbiamo tantissimo all’ingegnosità dei nostri progenitori che hanno riconosciuto come appartenente ai canoni biblici non solo il testo ma anche la stessa scrittura ebraica. In seguito a questo processo, è nata una catena ininterrotta di scribi – i sofrim. Il loro ruolo nel conservare e tramandare questo patrimonio, di generazione in generazione, scrivendo testi canonizzati nella scrittura ebraica santificata, ha garantito la continuità della tradizione e la sopravvivenza dell’identità ebraica. Con questo in mente, possiamo percepire un senso più profondo della frase idiomatica “fedele alla lettera”; molte lingue hanno adottato questa espressione idiomatica che ne testimonia il significato universale. Pensandoci bene, il sofer è diventato importante tanto quanto il mohel (la persona che conduce all’Alleanza con Abramo ogni neonato maschio ebreo). Avviene così che la cultura Israeliana odierna sia permeata di questa tradizione. Perciò, non sorprende che gli alunni israeliani siano in grado di leggere il Rotolo di Isaia originale di Qumran, senza dover studiare l’ebraico per molti anni nelle facoltà teologiche.
La pubblicazione di questo catalogo rappresenta una pietra miliare nella collaborazione culturale tra il Vaticano e Israele che, peraltro, è piuttosto recente. Le nostre relazioni hanno solo quindici anni, ma entrambi possiamo guardare indietro per alcune migliaia d’anni.
Ci auguriamo che questo progetto abbia suscitato abbastanza curiosità intellettuale e stimolato il desiderio di approfondire ulteriormente la collaborazione culturale tra noi.

BENJAMIN RICHLER
Allorché, quarantacinque anni or sono, mi accinsi a collaborare con l’Institute of Hebrew Manuscrips associato alla Jewish National Library, il novero dei microfilm ivi conservati assommava a meno di 20.000. Oggi, la medesima istituzione, ora denominata Institute of Microfilmed Hebrew Manuscripts (IMHM) presso la National Library of Israel (NLI), può vantare una collezione di ben 75.000 pellicole di manoscritti in scrittura ebraica, comprendente anche codici in giudeo-arabo, yiddish, judezmo, giudeo-persiano, e altre lingue ancora. Tale collezione, insieme con i circa 8000 manoscritti originali custoditi presso la NLI, raccoglie all’incirca il 90-95% di tutti i manoscritti ebraici di cui si stima la presenza nelle biblioteche pubbliche e nelle collezioni private di tutto il mondo.
Non appena pervennero i primi microfilm, a partire dal 1951, i catalogatori dell’Istituto avviarono la descrizione del contenuto su schede. Tutti i manoscritti raccolti presso l’IMHM sono ora catalogati; alcuni in modo dettagliato, altri in forma compendiaria. Mentre l’aggiornamento e l’affinamento delle descrizioni procede senza sosta, l’intero schedario cartaceo è ora consultabile on-line in formato elettro¬nico.
Elenchi di manoscritti, relativi ad alcune collezioni europee, furono pubblicati nei primi due decenni di attività dell’ IMHM (Austria e Germania, 1957; Spagna, Paesi Bassi, Belgio, Danimarca e Svizzera, 1964; Città del Vaticano, 1968).
I dati catalografici furono ricavati dai soli microfilm, senza ricorrere all’esame in situ dei codici. Gli elementi inventariali si limitavano spesso alla sola registrazione del nome dell’autore e del titolo dell’opera. Le descrizioni codicologiche erano estremamente sommarie, non fornendo il più delle volte che il mero novero dei fogli e la datazione, esplicitata o presunta, laddove i colofoni venivano generalmente trascurati. Parimenti ignorata la consistenza degli elementi costitutivi i volumi miscellanei.
Non di cataloghi dunque si trattava, ma di semplici inventari.
Licenziata la checklist relativa agli Judaica vaticani, l’Istituto interruppe le pubbli¬cazioni che illustravano il proprio patrimonio di microfilm. Un quarto di secolo più tardi, fu intrapresa una serie di nuovi progetti catalografici, basati questa volta sulla cooperazione con altre biblioteche, segnatamente con quelle istituzioni che conservassero rilevanti collezioni di manoscritti ebraici. Il primo progetto, concepito a più di un secolo dal catalogo dei codici ebraici oxoniensi di Adolf Neubauer (1832-1907), fu un Supplement of Addenda and Corrigenda to Vol. I (A. Neubauer’s catalogue), (Oxford 1994), compilato sotto la direzione di Malachi Beit-Arié e curato da R.A. May. L’opera pionieristica di Neubauer esigeva di essere aggiornata rispetto ai grandi progressi conseguiti dagli studi giudaici nel corso del XX secolo.
Poiché in questo periodo tali studi hanno compiuto progressi, erano necessari una revisione e un aggiornamento bibliografico di gran parte delle descrizioni. La compilazione di un nuovo catalogo che comprendesse tutti i 2603 manoscritti conservati presso la Bodleiana si presentava come un’impresa titanica che avrebbe tenuto occupato lo Staff dell’Istituto per molti anni. Si decise perciò di pubblicare un volume di supplemento contenente gli addenda e i corrigenda.
La successiva collezione ad essere catalogata è quella della Biblioteca Palatina di Parma. Diversamente dal catalogo di Neubauer, che rimane, pur bisognoso di revisione, strumento accessibile alla gran parte degli studiosi d’oggi, essendo scritto in inglese, il catalogo della collezione De Rossi, vecchio di due secoli, necessitava di una rivisitazione ancor più urgente, essendo per di più inaccessibile alla maggioranza degli specialisti, perché scritto in latino.
Un semplice volume di auctarium non sembrava sufficiente.
Si imponeva dunque la compilazione ex-novo di un catalogo in lingua inglese, per garantirne la fruibilità agli studiosi moderni. Il risultato fu la pubblicazione del catalogo Hebrew Manuscripts in the Biblioteca Palatina in Parma, a cura di Benjamin Richler; con descrizioni codicologiche e paleografiche di Malachi Beit-Arié, Jerusalem 2001.
La naturale conseguenza di tale impostazione fu l’idea di un nuovo catalogo, redatto in una lingua moderna, che descrivesse l’importante complesso dei fondi ebraici vaticani. Il risultato di tale progetto è il volume che oggi viene presentato.
I tre cataloghi qui sopra ricordati sono stati compilati adottando una metodologia catalografica uniforme. L’identificazione di autori e titoli, nonché la trascrizione di colofoni e note di possesso, è stata effettuata dallo staff dell’ IMHM a Gerusalemme, consultando i microfilm conservati presso l’Istituto. La descrizione fisica dei manoscritti è stata completata direttamente presso la Biblioteca Vaticana, per cura del Prof. Malachi Beit-Arié, che si è giovato dell’assistenza di Nurit Pasternak.
Dai tempi di Neubauer, a non voler menzionare i primordi derossiani e assema-niani, i progressi in ambito codicologico e paleografico, specie in relazione alla tradizione ebraica sono stati notevoli; tali progressi hanno grandemente accresciuto la precisione nella datazione e localizzazione dei codici.
A partire dal 1965, i paleografi hanno avuto l’opportunità di usufruire delle risorse e delle conoscenze acquisite nell’ambito del Hebrew Palaeography Project (HPP), progetto congiunto dell’Israel Academy of Sciences and Humanities e dell’Institut de Recherche et d’Histoire des Textes di Parigi, sotto gli auspici del CNRS francese. Il Prof. Beit-Arié, essendo stato fin dall’inizio co-direttore del progetto, nel corso della disamina delle collezioni vaticane ha naturalmente consultato l’archivio dell’HPP, ora disponibile in formato elettronico.
Una catalogazione del materiale manoscritto presupporrebbe un esame autoptico del medesimo piuttosto che il ricorso a riproduzioni, ancorché digitali. L’utilizzo esclusivo di microfilm comporta infatti numerosi inconvenienti. Dalla mera visione di un microfilm è impossibile ricavare una descrizione codicologica e paleografica esaustiva, perché molti particolari sfuggono o non sono chiaramente discernibili, come ad esempio i tipi di inchiostro utilizzati da un dato scriba, elemento fondamentale per dirimere fra mani diverse e per determinare la stratificazione di glosse e marginalia.
Il catalogatore può inoltre avvalersi di moderne tecniche di indagine, come l’utilizzo della luce ultravioletta per meglio discernere scritte impallidite, scomparse o altrimenti illeggibili. Vi è poi l’indagine codicologica, volta ad appurare la struttura fisica dei codici delle compagini da descrivere, indagine per la quale l’esame autoptico è conditio sine qua non.
D’altro canto, il grande vantaggio di lavorare presso l’IMHM, ubicato all’interno della National Library of Israel, consiste nell’avere accesso alla più grande raccolta al mondo di stampati ebraici e giudaici e nell’opportunità di avere a disposizione la necessaria strumentazione bibliografica ‒ strumentazione che manca nelle tre biblio¬teche di cui sopra. E infine, il catalogatore ha la possibilità di confrontare il mano¬scritto che sta descrivendo con dozzine di altri testimoni provenienti dalle più disparate collezioni.
Nel catalogare i fondi ebraici vaticani, ci siamo serviti di un catalogo unificato informatizzato che copre circa il 90% della tradizione ebraica manoscritta. Tale archivio elettronico consente sia ricerche booelane complesse, sia su singole parole o frasi, spesso cruciali per individuare l’autore di un testo inedito o incompleto.
I fondi ebraici vaticani furono microfilmati più di mezzo secolo fa. I manoscritti furono originariamente catalogati su schede cartacee dai membri dell’Istituto, esperti nei vari campi degli studi ebraici. Un catalogo provvisorio fu realizzato nei primi anni ’60; dopo la pubblicazione della summenzionata lista, molte schede catalo¬grafiche furono emendate sulla base di nuove edizioni di testi pubblicate nel frattempo e di più calzanti identificazioni. La decisione di intraprendere il progetto “Fondi Vaticani” rivelò la necessità di rivedere tutte le schede.
Le collezioni vaticane in scrittura ebraica coprono tutti i campi della tradizione giudaica: bibbia e commentari biblici (all’incirca 100 mss. in ciascuna categoria); Midrash (circa 30 manoscritti, fra cui il più antico esemplare noto di Sifra, del IX secolo); Talmud e suoi commentari (oltre 25 testimoni, la più ricca collezione al mondo, con 40 manoscritti latori di commentari talmudici); filosofia, sia di autori ebrei sia traduzioni di filosofi non ebrei (circa 100 manoscritti); astronomia, mate-matica e medicina (circa 70 manoscritti); letteratura e poesia (circa 25 manoscritti, ma molte opere sono disperse in manoscritti di altro soggetto); filologia (circa 50 manoscritti) e liturgia (circa 50 manoscritti).
Lo staff dell’IMHM è composto da esperti nelle diverse branche degli studi giudaici, ciascuno dei quali ha avuto il compito di rivedere le descrizioni di manoscritti vaticani pertinenti alla sua area di specializzazione. Gli stretti rapporti che inter¬corrono fra i membri dell’Istituto e gli studiosi che lo frequentano costituiscono un altro vantaggio per chi opera al suo interno, insieme con la vicinanza alla Hebrew University e ad altre istituzioni israeliane di istruzione superiore. Spesso, di fronte al problema di identificare un testo oscuro, i catalogatori dell’IMHM sono ricorsi all’aiuto di studiosi della materia, che si sono sempre mostrati disponibili e desiderosi di mettere a disposizione le loro competenze. Ha così preso forma la revisione del vecchio catalogo.
Nel 2000, allorché si decise di dare alle stampe il nuovo catalogo, alcuni rappresen¬tanti dell’IMHM si incontrarono con i loro omologhi della Biblioteca Vaticana per decidere le caratteristiche di contenuto, formato ed estensione delle schede catalografiche. Furono inviate alla Vaticana alcune schede esemplificative, in base alle quali fu stabilito il formato da adottare.
In qualità di curatore, il mio compito è stato quello di redigere le descrizioni in inglese e poi di aggiungere i dati paleografici fornitimi dal Prof. Beit-Arie e da Nurit Pasternak. In primo luogo, ho riesaminato i microfilm, collazionando le schede catalografiche cartacee col testo del manoscritto e aggiornando la bibliografia. Così corrette, tradotte in inglese e adattate al formato prestabilito, queste schede sono state poi riviste, emendate e corrette attraverso l’esame autoptico dei manoscritti, a opera dei summenzionati paleografi, che annualmente si recavano presso la Biblioteca Vaticana per integrare le informazioni paleografiche e codicologiche relative ad ogni codice catalogato.
La Biblioteca Apostolica ha poi provveduto a inviarci la prefazione del Cardinal Farina e l’introduzione storica di Delio Vania Proverbio. Nel 2006 una prima stesura del catalogo completo fu inviata a Raphael Posner, che ha curato la preparazione delle bozze di stampa. Ho condiviso l’arduo compito di rivedere queste ultime con Nurit Pasternak. In seguito ho approntato gli indici. Il camera-ready definitivo dell’intero catalogo è stato inviato alla Biblioteca Apostolica il 1° ottobre 2007. Nel maggio del 2008 fummo ricompensati delle nostre fatiche col volume che oggi si presenta.

MALACHI BEIT-ARIÈ
I manoscritti ebraici sono manufatti medievali di produzione giudaica, “faldoni di saggezza”, secondo la metafora del poeta ispano-ebreo Moses ibn Ezra. Come ogni altro libro medievale, essi hanno svolto la loro insigne funzione di propagatori di testi e di sapere, col preservare, sin da epoche remote, la continuità culturale in un territorio molto vasto ‒ funzione svolta più tardi dal libro a stampa.
I manoscritti ebraici ci restituiscono le molteplici sfaccettature della letteratura ebraica e giudaica ‒ letteratura di ambito biblico, giuridico, liturgico e filosofico, ac¬canto all’ambito scientifico, specialmente medico, matematico, astronomico. Hanno consentito l’introduzione di nuove idee e ispirato cambiamenti culturali e sociali. Come gli scribi latini, greci o arabi, i copisti ebrei hanno codificato la tradizione orale della loro civiltà, determinandone la forma scritta, forgiandone l’immagine visiva e migliorandone progressivamente la fruibilità, in epoche anteriori all’introduzione della stampa ‒ strumenti dirompenti di evoluzione e rivisitazione culturale.
Ma i manoscritti medievali non sono soltanto veicoli di registrazioni verbali in epoca anteriore all’introduzione della stampa. Sono anche manufatti culturali, oggetti fisici latori di elementi figurativi, artefatti denotanti tecniche esecutive speciali, abilità calligrafica e vena artistica, opere che riflettono l’attività intellettuale e gli interessi culturali della società del loro tempo e dell’area di produzione.
Come ogni altro libro medievale fatto a mano, i manoscritti ebraici sono anche complessi prodotti pre-industriali, che combinano, coordinano e riflettono compo¬nenti diverse, e nel loro processo di produzione implicano diversi punti di vista, tecnologico, estetico, economico e sociale; essi coinvolgono artigianato e arte, tecniche multiple, forme e schemi, scrittura e miniatura.
I libri ebraici manoscritti sono manufatti culturali prodotto da una minoranza religiosa, etnica e culturale. Le particolari circostanze storiche che hanno determinato la dispersione degli Ebrei lungo le coste del Mediterraneo e poi verso Est, Nord, Ovest, mescolandosi e trapiantandosi con altre civiltà, religioni e culture, hanno reso i manoscritti ebraici significativi e importanti per lo studio e la storia del manoscritto in area mediterranea in generale.
Fiorenti o in declino, protette o oppresse e perseguitate, piccole e grandi comunità ebraiche si sparsero nel corso del Medioevo dall’Asia Centrale fino all’Inghilterra, dallo Yemen al Nord-Africa fino in Germania e nell’Europa Centrale e Orientale, accolte dalle grandi civiltà di fede islamica e cristiana, l’Occidente latino, Oriente bizantino, e da molte altre culture minori, con lingue e scritture diverse.
Nonostante rimanessero saldamente ancorate alla loro religione, alla loro lingua, alla loro cultura e ai loro costumi, al loro autogoverno e al loro sistema educativo, esse furono fortemente influenzate dalle società che li circondavano e con le quali hanno condiviso non soltanto beni, strumenti, arti e tecniche, ma anche stili letterari, valori estetici, teorie filosofiche, criteri e stili calligrafici. La mobilità dei singoli Ebrei, per scelta o per necessità economica, come il forzoso dislocamento di intere comunità, li ha resi agenti di contatti interculturali, di interscambio e di reciproca influenza.
Nonostante l’adozione della lingua delle società di accoglienza per l’uso quotidiano ‒ l’uso estensivo del greco presso gli Ebrei ellenizzati nel tardo-antico, l’uso dell’arabo come lingua letteraria principale nei paesi di fede musulmana, e più tardi, anche se in misura minore, l’impiego letterario delle lingue volgari europee ‒ gli Ebrei sono rimasti fedeli alla loro scrittura, utilizzando la scrittura semitica loro propria non soltanto per codificare testi letterari e documenti in lingua ebraica, ma anche per trascrivere lingue allotrie, come le lingue europee.
In effetti, gli Ebrei vicino-orientali del tardo-antico e gli Ebrei d’Europa fino al IX secolo utilizzarono altre scritture, in particolare il greco, ma quasi esclusivamente in documenti non letterari. Le steli funerarie giunte sino a noi ci mostrano che nei paesi cristiani, all’inizio del Medioevo, l’ebraico andò a rimpiazzare gradualmente il greco e il latino, per arrivare poi in pieno Medioevo a essere di uso esclusivo presso gli Ebrei d’Europa, sia per quanto riguarda la produzione letteraria sia in ambito documentario.
Gli eruditi Ebrei dell’Europa medioevale non fecero mai uso della scrittura latina, nemmeno in trascrizione ebraica. D’altro canto, sin dall’XI secolo gli Ebrei cominciarono a fare uso delle lingue volgari, dapprima sporadicamente, e poi, nel corso del Medioevo, in maniera più intensiva. Antico francese, provenzale, catalano, castigliano, e naturalmente italiano, greco, e specialmente tedesco furono adottati dagli Ebrei e incorporati nei loro testi ebraici in trascrizione.
Così, gli Ebrei d’Oriente e d’Occidente, a partire dal IX secolo, utilizzarono in maniera quasi esclusiva la scrittura ebraica per le comunicazioni scritte, i documenti e gli strumenti giuridici, e in special modo per trascrivere e tramandare la loro letteratura ‒ letteratura in lingua ebraica, ma anche in altre lingue, particolarmente in arabo. Tale rimarchevole occorrenza, insieme con la dispersione degli Ebrei in un territorio molto vasto, ha fatto di una tradizione scrittoria e libraria marginale un fenomeno culturale di grande portata.
Dal punto di vista dell’estensione territoriale e della diffusione, la scrittura ebraica ha avuto nel Medioevo un impiego più ampio rispetto alle scritture greca, latina o araba, poiché i manoscritti ebraici furono prodotti in un’area territoriale coestensiva con quello di tutte le scritture soprammenzionate.
Naturalmente, l’umile “impero” di questa arte scrittoria e libraria marginale fu caratterizzato da varietà regionali nel tipo e stile di scrittura, nella tecnica libraria e nella pratica scrittoria. I libri ebraici medievali erano accomunati dallo stesso tipo di scrittura, ma differivano per area geografica e culturale di provenienza, denotanti differenti usi nella produzione libraria, nonché nello stile di scrittura, fortemente influenzati dal contatto con le tradizioni scrittorie locali e dalla scrittura latina e araba.
I manoscritti ebraici sono caratterizzati da un’ampia gamma di tipi calligrafici e denotano le più svariate tecniche scrittorie, a causa dell’influenza delle tradizioni locali dei luoghi di produzione. Sono inoltre testimonianza della mobilità dei copisti ebrei: questi ultimi travalicarono le frontiere politiche e culturali facendosi portatori della propria scrittura, delle proprie tradizioni scrittorie e del proprio retaggio culturale, e introducendoli nelle regioni in cui transitavano.
Lo studio sistematico di tutti i manoscritti medievali ebraici datati ha rivelato che circa un quinto di essi furono trascritti da copisti di provenienza allotria. In determi¬nate aree, e in alcuni periodi, la percentuale degli scribi immigrati fu molto maggiore ‒ come ad esempio nell’Italia del XV secolo, dove metà dei manoscritti ebraici furono copiati da transfughi provenienti da Spagna, Francia e Germania, i quali contaminarono la loro pratica scrittoria con quella del luogo di soggiorno.
Al giorno d’oggi sopravvivono all’incirca 70.000 manoscritti ebraici, conservati in circa 600 fra biblioteche nazionali, statali, pubbliche, comunali, universitarie e monastiche, e in collezioni private di tutto il mondo. Inoltre, circa 200.000 frammenti di manoscritti medievali sono stati preservati nella cosiddetta Genizà del Cairo, un ripostiglio di libri dismessi e danneggiati ubicata in una Sinagoga della Cairo vecchia. A essi si aggiunga la miriade di frammenti da manoscritti ebraici medievali ricavati da coperte e sguardie di legature di stampati occidentali, nelle quali furono reimpiegati come materiale di spoglio ‒ e ancora le recenti scoperte di bifolia riuti¬lizzati come legature d’archivio negli Archivi dell’Italia settentrionale.
Le sopravvivenze di questi codici, i più antichi dei quali non esorbitano il limite del IX secolo dell’era volgare (principalmente perché fino ad allora la tradizione letteraria ebraica si trasmise per via essenzialmente orale) riflettono la cultura scritta dell’Ebraismo nei suoi diversi aspetti. Essi non ci tramandano soltanto testi biblici, talmudici, halakhici, ma anche letteratura profana e scientifica.
Il numero di manoscritti ebraici medievali giunti sino a noi rappresenta peraltro una frazione minuscola dell’intera produzione libraria del popolo ebraico, mediamente colto in virtù del sistema educativo, pubblico e privato, in vigore presso le comunità giudaiche. La perdita della maggior parte dei manoscritti ebraici non fu la mera conseguenza di date circostanze storiche. I libri ebraici non furono soltanto distrutti, o abbandonati a causa della diaspora, di emigrazioni, persecuzioni, pogrom ed espulsioni; o confiscati e messi al rogo nei paesi cristiani: per la gran parte, essi furono degradati dall’usura. A differenza dei libri greci e latini, e in certa misura anche arabi, essi non furono conservati nelle biblioteche reali o in collezioni di nobili mecenati, o ancora nei monasteri, nelle moschee, o in altre istituzioni religiose o accademiche. Essi furono prodotti per uso e consumo privato. La scoperta della Geniza del Cairo ci fornisce un esempio tangibile del grado di deterioramento dei libri presso gli Ebrei del Medioevo. Il grosso dei frammenti fu conservato per un periodo di circa 250 anni, dal 1000 al 1250, ed è costituito dalle sopravvivenze residuali di circa 30.000 libri, che furono usati, si deteriorarono e furono scartati da un gruppo di Ebrei facenti parte di una delle comunità ebraiche esistenti nella sola città del Cairo.
Fra le centinaia di collezioni di codici ebraici nel mondo, soltanto quelle di una dozzina di biblioteche possono essere considerate grandi collezioni, sia per quantità ‒ la loro consistenza non è mai inferiore alle centinaia di manoscritti ‒ sia per qualità, perché conservano esemplari rari e rappresentativi di ogni area dello scibile ebraico, o esemplari antichi e miniati. Queste collezioni di Judaica si trovano nelle principali biblioteche di Oxford, Parigi, Londra, San Pietroburgo, Mosca, Cambridge, New York, Parma, Berlino, Gerusalemme, e naturalmente nella Biblioteca Apostolica Vaticana.
Può sembrare paradossale che i manoscritti ebraici sopravvissuti alla dispersione cagionata dalle espulsioni di massa e dalle persecuzioni degli Stati cristiani siano stati salvati dalle biblioteche europee, che li hanno acquistati, conservati e resi disponibili agli studiosi. Queste istituzioni cristiane si sono rivelate baluardo del retaggio letterario ebraico ‒ fra queste, la Biblioteca Apostolica Vaticana.
Il valore e l’unicità della rimarchevole collezione venutasi a costituire nella Biblioteca Apostolica Vaticana, per la cui custodia e conservazione generazioni di solerti scriptores si sono prodigate a partire dal XVI secolo, possono essere misurati verificando il numero di volte in cui un manoscritto ebraico vaticano è citato nella letteratura scientifica.
Il significato e l’importanza della collezione si estrinseca sia nel valore e rappresenta-tività dei testi, che illustrano gran parte delle sfaccettature della creatività letteraria giudaica (dalle Bibbie miniate ai trattati di filosofia e medicina) sia sotto il profilo della “fisicità” ‒ lo stato di conservazione generalmente eccellente, la diversificata origine dei manoscritti (principalmente di provenienza europea ‒ spagnola, tedesca, francese, naturalmente italiana ‒ e bizantina) e la ricca messe di colofoni datati. Il contributo di questi ultimi alla codicologia e paleografia ebraica è assolutamente ineguagliabile e unico fra le grandi collezioni di Judaica.
Almeno la metà dei codici medievali sono datati o recano il nome del copista. Circa un quarto dei codici della collezione sono esplicitamente datati. Nonostante l’esiguo numero di codici orientali, la Biblioteca conserva alcuni fra i più antichi manoscritti prodotti nel Vicino Oriente, uno dei quali sembra essere il più antico codice ebraico esistente (Vat. ebr. 66). La collezione vaticana annovera il più antico codice ebraico datato prodotto in Europa – Vat. ebr. 36, scritto nel 1072/3, probabilmente a Otranto, il più antico manoscritto ebraico proveniente da un paese dell’Europa cristiana continentale (la Bible de La Rochelle, 1214). Detiene inoltre la più grande raccolta di codici bizantini al mondo.
Non sembra pertanto necessario spiegare quanto fosse sentita dagli ebraisti e giudaisti l’urgenza di un nuovo catalogo complessivo e aggiornato di questa eccezionale collezione, che proseguisse l’eccellente e dettagliato catalogo latino, pubblicato più di cinquant’anni fa, preparato dall’eminente studioso Umberto Cassuto (Moshe David Cassuto), durante il suo soggiorno vaticano e prima di emigrare a Gerusalemme.
L’idea di allestire un tale catalogo, lanciata dalla Biblioteca Nazionale di Gerusalemme, fu entusiasticamente raccolta dall’allora Prefetto, oggi Sua Eminenza Cardinale Raffaele Farina, che incoraggiò e promosse la cooperazione fra le due Biblioteche ‒ il prodotto di tale cooperazione è il libro che oggi presentiamo.
Come ha detto poc’anzi il Dottor Richler, gran parte del lavoro catalografico è stato eseguito a Gerusalemme, utilizzando i microfilm della collezione. L’allora Biblioteca Nazionale e Universitaria di Gerusalemme ha avuto il merito di realizzare il pionieristico progetto di microfilmare tutti i manoscritti in caratteri ebraici esistenti al mondo e di renderli accessibili attraverso la catalogazione dei medesimi. Oggi l’archivio catalografico è consultabile in rete. L’ambizioso progetto, per la cui realizzazione si è dovuto vincere l’usuale riluttanza di molte biblioteche a condividere con altre istituzioni il proprio posseduto di libri rari, non avrebbe potuto essere realizzato senza la straordinaria volontà di cooperazione della Biblioteca Vaticana. Fu infatti la prima istituzione che, sessant’anni fa, autorizzò la microfilmatura completa della sua collezione giudaica, divenendo così un modello da seguire per le altre biblioteche.
Nurit Pasternak e io abbiamo avuto la fortuna di poter operare in loco sugli originali, dal momento che il nostro compito era quello di descrivere i codici dal punto di vista codicologico e paleografico, di datarli e localizzarne la provenienza, e inoltre di verificare ed eventualmente correggere le numerose citazioni incluse nelle descrizioni catalogra¬fiche. Nel corso di cinque anni, durante le molte settimane trascorse presso la Biblioteca Vati¬cana, abbiamo esaminato l’intera collezione. Ma non avremmo potuto realizzare questo senza la calorosa accoglienza e il cortese supporto fornitoci da molti collaboratori della Biblioteca, a cui vogliamo esprimere la nostra sentita gratitudine. In primo luogo al Prefetto di allora, che ha promosso il progetto e contribuito a rendere gradevole il nostro soggiorno. Il Vice Prefetto, Ambrogio Piazzoni, che con i suoi collabo¬ratori si è sempre mostrato pronto a soddisfare le nostre richieste. Il Dr. Paolo Vian, responsabile dei manoscritti, ci è stato d’aiuto in vario modo. Last but not least, lo staff della sala manoscritti, capeggiata da Antonio Schiavi, che si è prodigata per fornirci ogni volta centinaia di manoscritti e ci ha consentito di studiarli nelle migliori condizioni possibili.

MONS. PIER FRANCESCO FUMAGALLI
VICE-PREFETTO DELL’AMBROSIANA

La Porta del Tesoro
L’incontro di stasera al Museo Diocesano, inaugurato nel 2001 dal Cardinale Arcivescovo Carlo Maria Martini, ci fa sognare di trovarci in uno di quei Musei dell’Antichità, custodi del passato e laboratori del futuro, come fu l’ineguagliata Biblioteca-Museo di Alessandria d’Egitto o quelle di Atene, Babilonia e Pergamo. Con le loro diverse civiltà di riferimento, quelle istituzioni culturali erano espressione del cosmopolitismo e del dialogo fra le culture e le religioni del mondo, e ad Alessandria la traduzione greca della Bibbia fu un segno di dialogo in particolare per le “Religioni del Libro”. Occuparci dei libri di una Biblioteca antica ed unica come la Vaticana in Roma, e in particolare dei suoi manoscritti ebraici, catalogati da professori ed esperti di Gerusalemme e d’Israele, ci introduce in un luogo fuori del tempo, in una “Casa di Saggezza” dell’umanità intera, come era quella aperta dal califfo abbaside al-Ma’mun a Baghdad XII secoli fa, o l’altrettanto celebre biblioteca cinese 天一阁 (Tian yi ge) inaugurata a Ningbo nel 1566 nell’Impero di Mezzo. A chi penetra in simili Sale di tesori ben si addice l’augurio del Hadith che Sufyan ibn ‛Unyayna riferisce del Profeta dell’Islam: إذاً دخلت خزانة فا جتهد ان لا تخرج منها ختى تعرف ما فيه Quando entri in un Tesoro, fa’ attenzione a non uscirne finché non hai compreso ciò che contiene!
(Hadith che Achille Ratti, poi Papa Pio XI, volle all’ingresso dell’Ambrosiana sopra l’epigrafe latina da lui stesso dettata, a suggerire di tendere l’animo vigile e modesto, in perenne ricerca sulla soglia della Casa della Saggezza).

Giano bifronte
Il libro, che c’introduce al racconto di quest’avventurosa ricerca dello spirito, dell’arte, della scienza e della fede, è un catalogo. Un oggetto apparentemente arido e privo di qualunque fascino, come lo è uno specchio pur fedele rispetto alla realtà della donna amata. Ma qui già si arresta il pregiudizio, perché solo che lo apriamo – tagliandone faticosamente i fogli intonsi – ne scopriamo alcune singolarità fin dall’inizio: ha infatti non uno ma due frontespizi – da destra quello in ebraico, da sinistra quello in inglese… – [sarebbe interessante coglierne anche le differenze più significative…]. Il fatto di poter partire indifferentemente sia da destra che da sinistra, per noi milanesi abituati alla mano di Leonardo da Vinci che qui risiedeva cinque secoli fa amando scrivere soprattutto in modo speculare, costituisce un mistero familiare che aggiunge simpatia e curiosità. I battenti della porta s’aprono lievi sia verso l’entrata che verso l’uscita, come un Giano bifronte.

Il velo e l’immagine
Se continuiamo a sfogliarlo delicatamente, ci imbattiamo in un libro illustrato, anzi in una raccolta di cui fanno parte 70 codici con calligrafie decorative simili a spartiti musicali e deliziosi dipinti portatili (Indice, p. 769): 16 tavole a colori ci fanno sollevare un velo sulla visione delle antichissime scritture ebraiche orientali con le vocali scritte sopra le consonanti (il più antico manoscritto ebraico al mondo, probabilmente, Vat. Ebr. 66, Sifra, fine del secolo IX-inizio del sec. X), sui sontuosi codici miniati rinascimentali con capolavori pittorici come la vivacissima scena dell’aula di tribunale nel codice di giurisprudenza religiosa Arba‛ah Turim di Jacob ben Asher, scritto a Mantova nel 1435 (Ross. 555). Si spalanca così lo scenario sul raffinato intreccio tra artisti e miniatori, copisti e umanisti, ebrei e cristiani, che trovavano nell’arte e nello studio il ponte naturale di scambio per i valori dello spirito, come hanno mostrato gli studiosi di storia della miniatura ebraica, citati nel catalogo (Munkacsi, Gutmann, ecc.), ed anche qui tra i milanesi abbiamo la soddisfazione di vedere menzionate le numerose ricerche di colei che già aveva ben descritto i codici ebraici miniati dell’Ambrosiana, Luisella Mortara Ottolenghi. Suo è il merito di averci fatto meglio conoscere le scuole di copisti e miniatori di manoscritti ebraici, a partire da quelle romane nel Duecento da lei studiate nella storia de Gli ebrei in Italia («Figure e imagini» dal secolo XIII al XIX» in Storia d’Italia, Einaudi, 1996).

Un giardino di Spiriti Magni
Dopo questo primo sguardo, ci afferra forse lo sgomento di chi si rende conto di star per iniziare una navigazione avventurosa verso orizzonti sconfinati di pensiero. Ma ecco farsi accanto, quasi guide virgiliane a danteschi smarriti, coloro che – lungo decine di secoli – hanno tessuto il filo di queste trame vergate con l’inchiostro e talora difese a prezzo del sangue dei martiri: i loro profili si delineano ai nostri occhi, come una foresta di vivi le cui foglie vibrano tra le nostre dita, richiamati dall’elenco dei nomi di persone che popolano questo giardino di spiriti magni. L’augusta sfilata dei Profeti biblici aperta da Mosé cui seguono i commentatori a partire dal loro principe Rashi, la severa famiglia dei filosofi con in testa Aristotele, Averroé e Mosé Maimonide, la serrata schiera dei tosafisti e dei talmudisti che percorrono l’oceano talmudico, l’infuocata fiamma dei mistici seguita dai qabbalisti cristiani guidati da Pico della Mirandola, il coro gioioso dei poeti intonato da Judah ha-Levi e Solomon ibn Gabirol, l’innumerevole serie degli astrologi, astronomi, medici e matematici, storici e grammatici, tutto questo Pantheon è raccolto nell’indice latino dei nomi.

Affrontiamo l’Oceano
A questo punto il modesto appetito si sta forse trasformando in avidità smodata, e ci gettiamo sull’indice ebraico: le prime 27 pagine contengono un primo indice di circa 1350 piyyutim e poemi – delizia per il critico letterario come per l’orante fedele – tra i quali non si contano quelli di chiara ispirazione biblica tratta dai Salmi di Davide: Av ha-rakhamim bore olamim, Bo yavo nose be-rinna.
Altre 38 pagine sono dedicate agli indici dei titoli delle opere – circa 1600 – che iniziano con il trattato della Mishnà, forse il più celebre, sapienziale e universalistico, Avoth de Rabbi Nathan, che immediatamente ci fa sognare la novella di Nathan der weise di Lessing.
Drammatico è, invece, l’incontro con il primo dei titoli dedicati alle Lettere (Iggeroth), dove per un rimando da una prima raccolta (Neof. 43, I) siamo incuriositi a consultare il manoscritto Neof. 26, un trattato qabbalistico Shaare Orah di Josepf Gikatilla, e finiamo per scoprire che il codice quattrocentesco fu donato al Collegio dei Neofiti nel 1602 da un convertito, nato Solomon Colcos in Roma, e vi si fa riferimento al decreto dell’Imperatore Carlo V, che il 2 febbraio 1541 espelleva gli ebrei da Napoli.
Se tali sono le sorprese che traiamo solo dall’indice, ora non ci resta che tuffarci nel mare – o piuttosto nel quieto lago – del Catalogo. Per puro caso, c’imbattiamo in un codice (Vat. Ebr. 288) che evoca anch’esso tempestosi sequestri: un trattato filosofico-mistico copiato in area palestinese verso il 1314 seguito da altri scritti qabbalistici, sequestrato alla Vaticana nel 1798 dall’armata di Napoleone, finito poi in deposito all’Ambrosiana di Milano. Qui nel 1933 fu catalogato accuratamente da Carlo Bernheimer, prima di essere felicemente restituito alla Vaticana.

Guide per i più perplessi
Senza una bussola rischieremmo però di smarrirci, perciò ci affidiamo docili all’introduzione di Benjamin Richler, Editor del catalogo, che già con impareggiabile zelo nel 2005 aveva curato l’ altro importantissimo catalogo della Biblioteca Palatina parmense, descrivendone la collezione di manoscritti ebraici di Giovanni Bernardo De Rossi, massimo erudito, collezionista ed ebraista della fine del secolo XVIII-inizio secolo XIX. In modo molto diverso si è formata la raccolta vaticana – “una delle più importanti collezioni di manoscritti ebraici esistenti” – che comprende praticamente testi di tutti i generi letterari e scientifici coltivati dagli ebrei nel medioevo e nel rinascimento, dall’antichissimo Commento all’Esodo Sifra appena menzionato, con vocalizzazione babilonese sopralineare, forse di provenienza iraqena, poi portato nel secolo XII in Egitto a Fustat, alla Bibbia completa (Urb. Ebr. 2) copiata in Italia circa nel 1100. Tra i moltissimi altri testi, citiamo il Targum Neofiti (Neof. 1), copia unica del Targum Palestinese sul Pentateuco, ed oltre 20 copie di trattati talmudici, incluso uno dei pochi manoscritti rimasti al mondo del Targum di Gerusalemme (Urb. Ebr. 133).
Il metodo descrittivo degli 813 [800? Ma un codice ne può contenere in realtà molti…] manoscritti, ottimamente collaudato per il catalogo di Parma, dà l’indicazione della segnatura, una descrizione codicologica, di contenuti, colophon e provenienze, possessori ed eventuali referenze bibliografiche più significative.

Sete di Hebraica Veritas, censure, conversioni forzate
Viene da chiedersi: come, quando, perchè la Biblioteca del Papa ha collezionato questi manoscritti così importanti per la cultura ebraica e universale? A questa domanda inizia a rispondere Delio Vania Proverbio, Scriptor della Vaticana, con la sua introduzione storica premessa al Catalogo. Libri ebraici dovevano essere necessari alla ‘nuova’ religione cristiana, dalle origini e poi in seguito, per la necessità di tradurre dall’originale la Bibbia, prima e dopo san Girolamo. Già intorno al 1369 nella biblioteca papale di Avignone si trovavano 120 manoscritti ebraici, secondo il catalogo di Urbano V, ma finirono dispersi per le vicende che segnarono quell’epoca, tranne alcuni codici avignonesi poi riacquistati con il fondo Borghesiano in età moderna da papa Leone XIII. Dopo il periodo avignonese, in età umanistica e rinascimentale, l’interesse per i libri ebraici si estese dall’area biblica a quella letteraria e scientifica in senso più largo.
Sotto il pontificato di Sisto IV (1471-84) ci sarebbe stato uno Scriptor di ebraico nella biblioteca con l’incarico di acquistare libri. Il manoscritto Vat. Lat. 3969 nell’anno 1541 parla di due capsae o scaffali laterali di libri ebraici, cui molti altri andarono aggiungendosi, come elenca Proverbio. Nel 1623 entrarono in biblioteca 262 manoscritti ebraici della Biblioteca Palatina di Heidelberg, che ne raccoglieva 177 precedentemente appartenuti al banchiere Ulrich Fugger. Un indice di 173 manoscritti fu steso tra il 1633 e il 1646 dallo Scriptor Hebraicus Carlo Federico Borromeo, un convertito con scarse conoscenze di letteratura ebraica, già collaboratore di Federico Borromeo all’Ambrosiana; in quei medesimi anni, anche un altro convertito, migliore conoscitore di letteratura rabbinica, Domenico Gerosolimitano, studiava in Vaticana dopo esser passato da Milano, entrambi iniziatori di una lunga serie ambrosiana di bibliotecari alla quale la Vaticana non ha mai smesso di attingere.
La sete di Hebraica Veritas – per lo più in funzione conversionistica – spingeva molti cristiani, come Giannozzo Manetti, a raccogliere manoscritti ebraici, che finirono col confluire alla Vaticana, insieme con i fondi urbinate (a. 1657), reginense (a. 1690), neofiti (1891-96), borgiano e barberiniano (1902), rossiano (1921). L’aggiunta di un Indice nei nomi dei censori avrebbe, credo, potuto facilitarci nel riconoscere che spesso i codici, recanti le firme dei censori dell’Inquisizione, i passi censurati, le annotazioni, sono anche testimonianza di drammi personali umanissimi, e provengono per vie dirette o indirette da sequestri. A volte, come nel caso dei codici urbinati, le collezioni custodivano tesori frutto di saccheggi precedenti, quando il duca di Urbino nel 1472 aveva spogliato Volterra raccogliendo i libri di Menahem ben Aharon da Volterra, tra cui doveva trovarsi la splendida Bibbia Volterra (Urb. Ebr. 1) con decorazioni micrografiche.
Questa sete non si è spenta neppure ora, se pensiamo che appena stampato questo catalogo già si sta pensando di aggiungervene un altro tomo per descrivere le 108 acquisizioni più recenti! Ma la temperie spirituale oggi è profondamente diversa, fondata sul rispetto e sul dialogo con i “fratelli prediletti” ebrei, secondo i principi del Concilio Vaticano II.

Come navigavano gli antichi prima di internet?
Tra i mitici argonauti e i cybernauti odierni c’è spazio e tempo per molte varianti…così, dopo il catalogo di C. F. Borromeo, seguirono molti altri contributi di catalogatori e studiosi, dall’Index del cistercense Giulio Bartolocci, al grande catalogo nel 1756 di Giuseppe Simonio Assemani, Scriptor di lingue siriana ed arabica, con un’Appendice di Angelo Mai nel 1831 e successive addende, fino al catalogo parziale di Umberto Cassuto nel 1956. Dopo la fondazione dello Stato d’Israele, Ben Gurion aveva affidato agli studiosi Nehemiah Allony ed Ephraim Kupfer il progetto mondiale di microfilmatura e catalogazione dei manoscritti ebraici, dal quale ebbe origine un Inventario pubblicato nel 1968 da N. Allony e D. S. Loewinger, prezioso riferimento agli studiosi frequentatori sia della Vaticana sia dell’Istituto per i microfilm dei manoscritti ebraici presso la Biblioteca nazionale e Universitaria di Gerusalemme.

Una casa per la Memoria
Come ben ricorda D. Proverbio, oltre ai manoscritti la Vaticana preserva anche le carte di molti insigni orientalisti, semitisti ed ebraisti: Fausto Lasinio, Graziadio Isaia Ascoli, Elia Benamozegh, Salomon Buber nonno di M. Buber, Achille Coen, Alessandro D’Ancona, Isaia Ghiron già bibliotecario della Braidense in Milano, Alexander Kohut, Mosè Lattes i cui libri sono rimasti nella biblioteche pubbliche milanesi, Benedetto Levi, Samuel David Luzzatto e altri membri della sua famiglia, Elio Modigliani, Moritz Steinschneider.
Ma ancor più prezioso è il ruolo che la Vaticana svolse negli anni bui della Shoà, quando l’orrore del genocidio antiebraico scosse anche Roma e l’Italia: in varie occasioni, la biblioteca divenne per studiosi quali Umberto Cassuto, Giorgio Levi della Vida, Aaron Freimann, Anna Maria Enriques, un’oasi sicura, un riparo e un baluardo di difesa.
Anche in questo aprirsi agli studiosi ebrei, senza più intenti conversionistici, possiamo riconoscere un tratto di quel “filosemitismo” cristiano del secolo XX, che caratterizzò in Ambrosiana la prefettura di Achille Ratti, amico personale del Rabbino Capo di Milano Alessandro da Fano, e che successivamente portò ad affidare la catalogazione dei 200 manoscritti ebraici ambrosiani a Carlo Bernheimer nel 1933 e ad Aldo Luzzatto e Luisella Mortara Ottolenghi nel 1972.

L’Accordo Fondamentale del 1993
Per comprendere però come si sia potuto giungere a questo bel volume di 880 pagine complessive, frutto di tanti studi condotti durante epoche così lunghe, complesse e travagliate, non si può non ricordare che, il 30 dicembre 1993, a Gerusalemme veniva firmato un Accordo fondamentale tra la Santa Sede e lo Stato d’Israele, nel quale all’art. 7 si diceva tra l’altro: «La Santa Sede e lo Stato d’Israele riconoscono di avere un comune interesse nel promuovere e incoraggiare gli scambi culturali […] e nell’agevolare l’accesso a manoscritti, documenti storici e altre fonti affini, in conformità con le leggi e i regolamenti competenti».
Su questa base di partenza, nel 1999 il Ministero degli Esteri israeliano e l’Ambasciatore di Israele presso la Santa Sede, Aharon Lopez, discussero del progetto di catalogare insieme i manoscritti ebraici della Vaticana, incontrando il pieno favore di papa Giovanni Paolo II, dell’allora cardinale bibliotecario Jorge Mejía e del prefetto, oggi cardinale Raffaele Farina che ha seguito i lavori fino al loro completamento attuale sotto il pontificato di papa Benedetto XVI. Da parte israeliana, come rievoca Malachi Beit-Arié nella Prefazione, ci vollero 5 anni di missioni di un mese all’anno, compiuti a Roma in collaborazione con la studiosa Nurit Pasternak, accompagnati da un continuo lavoro di studio e verifica a Gerusalemme. A sostenere il progetto sono intervenuti l’Accademia Israeliana di Scienze e Lettere con il database codicologico del Progetto di paleografia ebraica SfarData, l’Istituto per i microfilm dei manoscritti ebraici di Gerusalemme con l’assistenza del dottor Avraham David ed altri collaboratori, l’Università di Bar Ilan con il professor Zvi Langermann, e tutti coloro i cui nomi sono menzionati con gratitudine in apertura al Catalogo.

Domande aperte
La biblioteca del papa si limita a organizzare mostre di rilievo globale, a pubblicare cataloghi come chi scava cunicoli in miniere d’oro, oppure si arricchisce ancora di manoscritti ebraici? E come?
Certo, talvolta la rete mondiale delle biblioteche le fornisce il supporto ideale ottimo allo scopo. Vorrei ora ricordare un piccolo episodio di questo genere poco noto, ad eccezione forse per i tre interessati qui riuniti stasera.
Esattamente quattro anni fa, nel gennaio 2005, giungeva all’Ambrosiana dal Vaticano una telefonata. In occasione del sessantesimo anniversario della liberazione dei Campi di sterminio nazisti, il 27 gennaio 1945, per la cerimonia solenne che si sarebbe tenuta ad una settimana di distanza ad Auschwitz, il Papa, già gravemente malato, aveva un desiderio: con un gesto di squisita delicatezza che confermava anche in ciò l’affetto verso i “fratelli prediletti” ebrei, chiedeva che il suo Messaggio datato 15 gennaio 2005, affidato al cardinale Jean-Marie Lustiger egli stesso di origini ebraiche, fosse tradotto nella lingua dei Padri.
Come soddisfare questo nobile desiderio? Anzitutto a Milano venne immediatamente in aiuto il Presidente dell’Assemblea Rabbinica Italiana, rav Giuseppe Laras, all’epoca Rabbino Capo. Quindi si fece ricorso – tramite la Biblioteca Vaticana – alla pronta e generosa opera dei medesimi studiosi israeliani che là proprio in quei giorni stavano portando a termine il Catalogo presentato qui stasera: grazie al Prefetto fu facile incontrare questi illustri amici, perfezionare il lavoro di traduzione sul manoscritto di Nurit Pasternak, infine trascriverlo su computer della biblioteca gentilmente messo a disposizione nel giorno festivo dal Prefetto. Il Messaggio, così tradotto in ebraico, fu stampato e mandato al Palazzo Apostolico il 22 gennaio.
Leggiamone il pensiero conclusivo che ben conviene ancora in questi stessi giorni amareggiati da odiosi negazionismi della Shoà:
«Se stiamo ricordando il dramma delle vittime, lo facciamo non per riaprire dolorose ferite, né per destare sentimenti di odio e propositi di vendetta, ma per rendere omaggio a quelle persone, per mettere in luce la verità storica e soprattutto perché tutti si rendano conto che quelle vicende tenebrose devono essere per gli uomini di oggi una chiamata alla responsabilità nel costruire la nostra storia. Mai più in nessun angolo della terra si ripeta ciò che hanno provato uomini e donne che da sessant’anni piangiamo!».
I sette fogli manoscritti con la traduzione sono rimasti – forse troppo a lungo – all’Ambrosiana, ed ormai mi sembra che non vi sia occasione migliore per affidarli con più ragione alla Biblioteca di naturale pertinenza, cioè alla Vaticana, che certo avrà modo di conservare degnamente questo documento di eccezione.

I motori della ricerca
Una parola di ringraziamento, a questo punto conclusivo, per gli studiosi che hanno tanto e tanto ben lavorato. Anzitutto Nurit Pasternak, infaticabile assistente preziosa e paziente, anche nel sopportare il dolore che le colpiva proprio gli occhi, velo e specchio dell’anima. Poi Malachi Beit-Arié, del quale tutti conoscono i meriti eccezionali nel campo della paleografia ebraica, a partire dai Manuscrits Médiévaux en caractères hébraïques portant des indications de date (con Colette Sirat, Parigi e Gerusalemme 1972) e volumi successivi, realizzati dal Comitato di paleografia ebraica, dal Centre Nationale de la Recherche Scientifique e dall’Accademia Nazionale di Scienze e Lettere d’Israele; infine Benjamin Richler, l’esperto che ha saputo illustrare tutte le collezioni ebraiche del mondo (cfr. Guide to Hebrew Manuscripts Collections, Jerusalem 1994, The Israel Academy of Sciences and Humanities). Essi hanno trovato in Vaticana un ambiente e esperti studiosi con i quali affinare ricerche e confrontarsi costantemente. Il loro esempio mostra che la collaborazione scientifica, intellettuale ed umana, è la base su cui possiamo continuare a costruire biblioteche come ponti di pace. In questo senso va anche l’istituzione in Milano, il 20 marzo 2008 a opera del cardinale arcivescovo Dionigi Tettamanzi, di un’Accademia Ambrosiana con sette Classi di studi, cui auguriamo di percorrere eguali strade insieme con chi ne condivide gli ideali.
Gli antichi soferim e scribi concludevano il loro lavoro con un proverbio quale: sit finis libri, non finis credendi (“finisca pure questo libro, ma non finisca la fede!”), che potremmo anche parafrasare sit finis libri, non finis scribendi, o piuttosto con il detto augurale per ogni sforzo umano, dal Pirqe Avoth (2, 16): Non sta a noi concludere il lavoro, ma non possiamo esimerci dall’intraprenderlo
לא עליך המלאכה לגמור, ולא אתה בן חורין לבטל ממנה