A pochi chilometri dall’inferno siriano, i feriti curati e accuditi in Israele

«Curiamo tutti e ognuno allo stesso modo, e sono fiero del fatto che siamo in grado di farlo»

«Grazie a Dio qui veniamo curate bene»

«Grazie a Dio qui veniamo curate bene»

A meno di 160 km da Damasco, un ribelle siriano giace in un letto d’ospedale con una sentinella israeliana alla porta. Poco distante una madre siriana siede accanto alla figlia, colpita alla schiena da un cecchino. Quello che poco meno di un anno fa era iniziato come un rigagnolo di siriani è ormai diventato un flusso costante: decine di civili e di combattenti feriti nella guerra civile, che nella massima discrezione vengono portati al di qua della linea sul Golan che separa la Siria da Israele.

Per quanti benefici comporti l’ottima assistenza medica che alla fine si trova in Israele, il cammino per arrivarci è irto di pericoli per gente che teme l’ira furente dei connazionali e soprattutto delle forze governative del presidente Bashar Assad. “C’era un uomo, da dove vengo io, che è stato curato in Israele. I soldati del regime hanno ucciso i suoi tre fratelli – dice la madre della ragazza – Ucciderebbero i miei figli e mio marito, se dovessero mai scoprire che siamo stati qui”. Per paura di queste rappresaglie, i siriani ricoverati negli ospedali israeliani chiedono di restare anonimi.

La figlia 16enne, paralizzata a entrambe le gambe per le ferite subite, ha il volto immobile mentre un clown-animatore ospedaliero israeliano cerca invano di strapparle un sorriso. Da un mese è ricoverata allo Western Galilee Hospital di Nahariya, sulla costa mediterranea, un’ottantina di chilometri a ovest della linea sulle alture del Golan, presidiata dai caschi blu dell’Onu, che tiene separate le forze israeliane e siriane dai tempi della guerra dello Yom Kippur del 1973. Alcune settimana fa, nel suo villaggio natale infuriava una battaglia tra le forze di Assad e i combattenti ribelli. In un momento di pausa, racconta la madre, la ragazza ha aperto la porta sulla strada per vedere se la situazione fuori si era tranquillizzata. La zia le gridò di chiudere subito perché c’era un cecchino nella casa di fronte. Non ha fatto in tempo a finire la frase che quello ha sparato. “L’ho vista cadere a terra in un mare di sangue – dice la madre – Ero terrorizzata al pensiero che stavo per perderla. Ho detto: per carità, non voglio seppellire i miei figli uno dopo l’altro”. La ragazza venne portata di corsa in un ospedale da campo dei ribelli dove i medici siriani riuscirono a rimuoverle un proiettile da un polmone. Ma non erano in grado di fornirle le ulteriori cure di cui aveva bisogno. La ragazza, dissero, deve essere portata oltre il confine, in Giordania o in Israele. “Nel mio villaggio ricevevamo i canali televisivi israeliani – spiega la madre – Sapevo che la medicina qui è molto avanti. In Giordania avrei dovuto pagare, ma noi non abbiamo abbastanza soldi. Qui è gratis”. La donna preferisce non raccontare esattamente come lei e la figlia hanno raggiunto le linee israeliane sul Golan, in modo tale che i soldati le potessero trasportare in ospedale. Dice solo che i ribelli siriani le hanno aiutate a raggiungere la zona della linea di demarcazione fra Siria e Israele.

In Siria, dei circa 20 milioni di abitanti attualmente almeno un terzo è sfollato all’interno del paese o profugo all’esterno. Di regola Israele non accoglie profughi da un paese con il quale è in stato di guerra, ma garantisce l’assistenza medica e non ne fa mistero. L’esercito, però, non rivela in che modo i feriti siriani che raggiungono il confine vengono portati al di qua, né dice se si coordina con i ribelli o con altri. “E’ un tema molto delicato – spiega un portavoce militare – E’ in gioco le vita delle persone”. Anche gli osservatori delle Nazioni Unite schierati lungo i 75 km della linea di cessate il fuoco preferiscono non rispondere sulla questione.

L’esercito israeliano ha allestito un ospedale da campo su un rilievo che si affaccia su un gruppo di villaggi siriani nella pianura sottostante. Spesso spari ed esplosioni delle battaglie che vi hanno luogo risuonano al di qua della barriera di confine. Diversi feriti siriani che raggiungono il confine vengono trattati direttamente nell’ospedale da campo e poi rimandati nel loro paese. Altri vengono portati negli ospedali all’interno di Israele. “Noi non sappiamo come arrivino qui – dice Shukri Kassis, medico presso lo Ziv Medical Center di Safed, a 40 km dalla linea del fronte siriano – Semplicemente veniamo avvisati dai medici militari che li stanno portando qui”. Il governo non fornisce una cifra ufficiale del totale dei siriani che sono stati finora curati negli ospedali israeliani, ma il dato dovrebbe ormai superare le due centinaia (senza contare l’ospedale da campo al confine).

«Ero felice quando ho scoperto che di trovarmi qui»

«Ero felice quando ho scoperto di trovarmi qui»

Il personale a Nahariya racconta che un uomo da loro curato era miracolosamente sopravvissuto ad una esecuzione sommaria. Gli hanno sparato a distanza ravvicinata nella parte posteriore della testa. Un altro giovane era stato colpito alla testa da un cecchino. Entrambi sono ora di nuovo in Siria e della loro sorte non si sa nulla. “E’ dura, per noi – dice Naama Shachar, capo infermiera al reparto di terapia pediatrica a Nahariya – non saperne più nulla dopo che li abbiamo curati e sono tornati a casa”.

In un altro reparto, un uomo sulla ventina siede sul letto fissando la sua coscia: il resto della gamba non c’è più. Dice di essere un combattente dell’Esercito Libero Siriano. È stato colpito in una battaglia con le forze di Assad poche settimane fa. Non dice dove. Ricorda i medici di un ospedale da campo dei ribelli che tentavano di salvare la sua gamba sinistra, ma non ricorda come è arrivato in Israele, un viaggio abbastanza lungo da far instaurare la cancrena. “Ricordo d’essermi svegliato nella sala urgenze – racconta – con il medico che mi diceva che, per salvarmi la vita, dovevano amputare la gamba e mi chiedeva di firmare il consenso”.

La Croce Rossa Internazionale visita i pazienti in Israele e offre assistenza per contattare le famiglie. Alcuni pazienti dicono d’aver mandato notizie a casa. Altri temono che qualsiasi messaggio possa rivelare dove si trovano, mettendo in pericolo i loro famigliari. La madre della sedicenne non ha più avuto alcun contatto con gli altri suoi sei figli lasciati al paese. “Sono continuamente in pensiero per loro, se sono al sicuri oppure no. Non c’è da telefonare, c’è solo da pregare Dio”, conclude alzando al cielo gli occhi pieni di lacrime.

Negli ospedali, la maggior parte delle camere dei pazienti maschi sono piantonate dalla polizia militare. Tanti di loro, spiega lo staff, sono arrivati con ferite molto probabilmente subite in combattimento. All’ospedale Ziv, controllando le tasche di un combattente, i medici hanno trovato una bomba a mano. “Potrebbero essere di al-Qaeda, per quel che ne sappiamo” spiega un addetto, aggiungendo che gli uomini vengono sorvegliati anche per la loro sicurezza, nel caso scoppiassero liti tra pazienti.

Siccome non mancano mai medici e paramedici israeliani di madrelingua araba, le comunicazioni con i pazienti siriani non presentano grosse difficoltà. E molti dei feriti e dei loro parenti hanno reagito a questo ambiente ospitale modificando le loro opinioni ostili verso Israele. “Per noi Israele era sempre e solo il nemico – dice una siriana originaria della città meridionale di Deraa, ora ricoverata con il figlio di 8 anni all’ospedale Ziv dove entrambi vengono curati per le ferite subite in un’esplosione – Grazie a Dio, qui sono felice e veniamo curate bene”. Il combattente dell’Esercito Libero Siriano dice che dalle sue parti era giunta voce delle cure in Israele. “Ero felice, quando ho scoperto di trovarmi qui – dice – La maggior parte dei combattenti sa che in Israele si ricevono buone cure”.

Quelli del personale medico e paramedico dicono che loro non fanno nessuna distinzione fra i pazienti trattati, e alcuni hanno stretto legami con i ricoverati siriani”. “In medicina non ci sono confini, né colori, né nazionalità – dice Oscar Embon, direttore generale dello Ziv Medical Center – Curiamo tutti e ognuno allo stesso modo, e sono fiero del fatto che siamo in grado di farlo”.

(Da: Jerusalem Post, 15.9.13)

 

Siriani, feriti nella guerra civile, in cura in Israele