A proposito del boicottaggio britannico

Dare addosso a Israele sta diventato un esercizio conveniente e gratificante. “Ah, se solo Israele non ci fosse, quanti problemi in meno avremmo...” è la falsa illusione che continuano a insinuare e diffondere molti intellettuali, politici e mass-media

M. Paganoni per NES n. 6, anno 19 - giugno 2007

image_1733Titolare di due lauree all’Università di Haifa, in procinto di conseguire il PhD presso l’Università di Londra, l’arabo druso Amir Hanifes ha partecipato in qualità di delegato israeliano al congresso di maggio della University and College Union britannica che ha decretato il boicottaggio delle università israeliane. “Il dibattito – ha raccontato (YnetNews, 6.06.07) – si è svolto in un’atmosfera di aperta ostilità, ignorando completamente i dati che noi illustravamo”. Inutile ricordare ai colleghi d’oltremanica che i docenti israeliani pro-palestinesi possono esprimere liberamente le loro opinioni sia nella didattica che sui mass-media. Inutile presentare un elenco di centri universitari israeliani apertamente attivi nella cooperazione israelo-arabo-palestinese. Inutile citare gli appelli anti-boicottaggio di docenti palestinesi come Sari Nusseibeh, presidente dell’Università Al-Quds. Inutile spiegare che all’Università di Haifa il 20% degli studenti appartiene alle minoranze israeliane e gode di piena agibilità politica (“evidentemente anche noi arabi israeliani dovremo subire il boicottaggio”, chiosa Hanifes). Inutile far presente che i successi tecnologici e culturali israeliani scaturiscono proprio dalla libertà d’espressione e di ricerca che vige in Israele. “A loro non interessavano dati e cifre – conclude Hanifes – Il loro unico obiettivo era delegittimare lo stato di Israele, presentarlo come un regime da apartheid che nega alle minoranze diritti elementari come istruzione e libertà d’espressione. Ed erano particolarmente infastiditi dal fatto che uno studioso come me, arabo druso, partecipasse al congresso difendendo l’accademia israeliana”.
Com’è noto, non si tratta di un caso isolato. A marzo 130 medici britannici avevano proposto di boicottare la Israel Medical Association, chiedendone l’espulsione dalla World Medical Association. S’era poi accodata un’associazione di architetti. Ad aprile il sindacato nazionale dei giornalisti britannici aveva deciso di boicottare tutti i prodotti made in Israel. “Un insulto all’intelligenza”, l’hanno definito alcuni dei più autorevoli corrispondenti da Gerusalemme: “Se i giornalisti volessero veramente boicottare i prodotti israeliani dovrebbero rinunciare ai loro cellulari e computer portatili, giacché tutti questi prodotti contengono componenti prodotte in Israele”. “Ma la nostra simpatia va tutta ai palestinesi”, ha ribattuto Tim Gopsill, direttore delle public relations del sindacato giornalisti (Jerusalem Post, 18.04.07), senza molta considerazione per le più ovvie norme deontologiche del suo mestiere. Sulla stessa scia si è messo anche il secondo maggior sindacato britannico della pubblica amministrazione UNISON (“Nonostante tutte le aggressioni e gli attentati – ha commentato Ofer Eini, chairman della confederazione sindacale israeliana Histadrut – a noi non è mai nemmeno venuto in mente di boicottare l’economia palestinese”). E l’anno scorso s’erano avute le campagne della Chiesa Anglicana per “disinvestire” da Israele.
“Se c’è una cosa che posso dire con assoluta certezza circa il conflitto israelo-palestinese – ha scritto Sharon Shochat, una studiosa che normalmente non lesina dure critiche al proprio paese (Ha’aretz, 09.06.07) – è che è sbagliato pensarlo come una dicotomia tra ragione e torto, tra vittime e carnefici, tra vincitori e perdenti. Questo è l’errore più grave dei fautori del boicottaggio, che così facendo agiscono contro ogni riconciliazione e gettano benzina sul fuoco del conflitto”.
Si tratta di un fenomeno che non può non suscitare preoccupanti interrogativi. Innanzitutto, perché proprio Israele? Nessuna di queste organizzazioni ha deciso nulla di simile, ad esempio, contro il Sudan delle stragi nel Darfur, né contro l’occupazione russa della Cecenia o quella cinese del Tibet o contro la stessa Gran Bretagna che “occupa” Iraq, Irlanda del Nord, isole Falkland. Nessun boicottaggio britannico contro lo Zimbabwe di Robert Mugabe, né contro la Birmania-Myanmar, la Corea del Nord, l’Iran, la Siria o l’Arabia Saudita tanto per citare qualche altro campione in diritti umani e rispetto delle minoranze. Perché solo Israele, l’unico che è esplicitamente minacciato di distruzione e che, tuttavia, ha dimostrato coi fatti la disponibilità al compromesso e alla pace, nonostante le continue aggressioni anche dopo i ritiri sui confini internazionali a nord e a sud?
E poi, perché prendere di mira i medici israeliani, che notoriamente curano allo stesso modo arabi ed ebrei, o l’università che è forse l’ambiente più “anti-occupazione” di tutto il paese? Perché giocarsi la propria imparzialità, il patrimonio più prezioso di un giornalista, per un boicottaggio comunque inapplicabile? Perché gettare alle ortiche la libertà di ricerca, il bene più prezioso di uno studioso, per un boicottaggio che, per dirla con il ministro dell’istruzione israeliano, la laburista Yuli Tamir (YnetNews, 31.05.07), “trasforma l’universitario in un politicante le cui posizioni ideologiche fanno premio sulla passione scientifica?”.
Infine, perché proprio in Gran Bretagna? Qua e là in altri paesi, Italia compresa, si sono avuti vari appelli al boicottaggio anti-israeliano, generalmente caduti nel vuoto. Ma in nessun paese, stati arabi esclusi, si è mai andati nemmeno vicini al parossismo britannico. Perché questa ossessione? Gli psicologi potrebbero sbizzarrirsi. In fondo la Gran Bretagna è il paese della prima calunnia del sangue cristiana (il caso William di Norwich del 1144) e della prima espulsione degli ebrei (nel 1290). Ed è l’ex potenza coloniale, quella le cui politiche contribuirono a provocare buona parte dei problemi che oggi affliggono il Medio Oriente, per poi esserne espulsa da un’insurrezione ebraica.
Inoltre, i sentimenti anti-israeliani innescano un circolo vizioso. “Dopo tutto – nota Evelyn Gordon (Jerusalem Post, 6.06.07) – il sindacato giornalisti influenza ciò che gli inglesi apprendono dai mass-media, la Chiesa Anglicana stabilisce quel che ascoltano dal pulpito, il sindacato docenti controlla ciò che imparano nelle scuole, il sindacato dei dipendenti pubblici influenza le decisioni politiche. Cos’altro rimane?”.
Ma è chiaro che ci troviamo di fronte a un fenomeno più generale. È chiaro che dare addosso a Israele sta diventato un esercizio conveniente (non si paga pegno) e gratificante: torna utile attribuire a Israele tutti i conflitti del mondo, specie quelli – angoscianti – che nascono dal violentissimo scontro che in questi anni spacca il mondo, e lo stesso mondo islamico, fra jihadismo islamista e società aperta e democratica. “Ah, se solo Israele non ci fosse, quanti problemi in meno avremmo…” è la falsa illusione che continuano a insinuare e diffondere molti intellettuali, politici e mass-media. E così facendo si assumono una responsabilità morale e storica della quale un giorno, temiamo, dovranno ricredersi amaramente.

Nell’immagine in alto: Ebrei, israeliani e americani sono la causa nazi-demoniaca di tutti i mali del mondo, secondo un cartello esibito in una manifestazione “contro la guerra” (San Franciso, 16 febbraio 2003).