Abu Mazen all’Onu. Di nuovo

La domanda è: per quanto tempo Abu Mazen potrà affossare i negoziati, incoraggiare la violenza, criminalizzare Israele e continuare a passare per “moderato”?

Di David M. Weinberg

David M. Weinberg, autore di questo articolo

Questa settimana il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) salirà di nuovo sul podio dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. E di nuovo c’è un’amministrazione americana che implora Abu Mazen di indossare la maschera da moderato ed evitare di esacerbare la situazione con un discorso incendiario o con mosse estremiste contro Israele.

Ma questo, a mio parere, non è il vero test della supposta moderazione palestinese. La vera domanda è: per quanto tempo Abu Mazen potrà schierarsi contro i veri negoziazioni e contro il compromesso, incoraggiare la violenza, celebrare i terroristi e caldeggiare la criminalizzazione di Israele a ogni livello internazionale continuando ad essere considerato dalla comunità mondiale un campione della pace?

Si consideri questo: da quasi due decenni gli israeliani si sentono dire che Abu Mazen è il leader palestinese più ragionevole che potrebbero sperare, che è il miglior interlocutore di pace con Israele, che è il moderato con cui si può raggiungere un grande compromesso. E gli israeliani desideravano tanto credere che fosse così. Ma poi è arrivato l’Abu Mazen che nel 2008 ha lasciato cadere l’offerta territoriale estremamente generosa del primo ministro Ehud Olmert; e l’Abu Mazen che ha rifiutato i colloqui di pace con il primo ministro Benjamin Netanyahu anche dopo che Netanyahu nel 2010 aveva congelato tutte le attività edilizie negli insediamenti; e l’Abu Mazen che ha voltato le spalle al segretario di stato americano John Kerry nel 2014. Poi c’è stata l’occasione di preparare il pubblico palestinese al compromesso con Israele inopinatamente offerta da “PaliLeaks”. Ma Abu Mazen si è sottratto anche quella volta, smentendo vigorosamente le indicazioni su un possibile compromesso con Israele (sui profughi, su Gerusalemme, sui confini) che emergevano dai documenti trapelati.

Abu Mazen: “L’abbiamo detto: noi non riconosceremo Israele come stato ebraico”

Da allora Abu Mazen ha usato ogni possibile forum internazionale per scagliare veleno estremista contro Israele, cercando di criminalizzarlo in ogni modo. La serie dei suoi discorsi all’Assemblea Generale dell’Onu è agghiacciante. Nel suo intervento del 2011 definì “uomo di pace” il fondatore e capo dell’Olp Yasser Arafat. Parlò di Israele come di un occupante militare “feroce”, “aggressivo”, “razzista”, “da apartheid”, “orribile” e “colonialista”. Accusò Israele di praticare una “politica di pulizia etnica a molteplici  livelli” e di “colpire i civili palestinesi con assassinii, attacchi aerei e bombardamenti di artiglieria”. Parlò dei legami storici con la Terra Santa facendo riferimento soltanto a cristiani e musulmani. E, cosa ancora significativa, parlò dei “63 anni di occupazione” israeliana, portando un attacco diretto alla sovranità di Israele pre-’67.

Nel 2012 Abu Mazen cercò di ribaltare il quadro convenuto del processo di pace tentando di ottenere che fosse dichiarato il suo stato indipendente dalla comunità internazionale senza dover passare per un accordo e un compromesso con Israele: cioè di riscuotere il risultato del processo di pace senza doversi impegnare in nessun processo. Esortò la comunità internazionale a imporre una soluzione a Israele e poi passò ad accusare Israele di innumerevoli crimini, tra cui pulizia etnica, terrorismo, razzismo, istigazione dei conflitti religiosi, apartheid, demolizioni arbitrarie, spoliazioni, imprigionamento di “combattenti per la libertà”, colonizzazione mediante insediamenti e altro ancora.

Abu Mazen con la tipica rappresentazione della “Palestina” che comprende tutto il territorio dal mar Mediterraneo al Giordano: Israele è cancellato dalla carta geografica

Nel 2013 Abu Mazen disse all’Assemblea Generale che Israele stava preparando una nuova “nakba” a danno dei palestinesi; chiese che l’Onu punisse la presenza di Israele come potenza occupante in territorio palestinese; minacciò di trascinare Israele davanti alla Corte Penale internazionale. Poi giurò di non riconoscere mai Israele come stato nazionale del popolo ebraico, di non rinunciare mai al cosiddetto diritto di ritorno dentro Israele dei profughi palestinesi (e dei loro discendenti), di non accettare mai alcun controllo di sicurezza israeliano sulla valle del Giordano e su altri asset strategici per la difesa aerea e terrestre d’Israele, di non permettere mai agli ebrei di vivere in Giudea e Samaria (Cisgiordania), di non accettare nessuna sovranità israeliana su nessuna parte della Città Vecchia di Gerusalemme.

Nel 2014 Abu Mazen accusò Israele davanti all’Assemblea Generale di condurre una “guerra di genocidio” nella striscia di Gaza. Disse che Israele, anziché correggere “l’ingiustizia storica” della nakba del 1948 (si noti di nuovo il riferimento al ‘48, non al ‘67), commetteva “crimini di guerra assoluti” e “terrorismo di stato”. E proseguì concionando di “bande armate di coloni razzisti che persistono con i loro crimini contro il popolo, le terre, le moschee, le chiese, le proprietà e gli ulivi palestinesi”, e di una “cultura del razzismo, dell’istigazione e dell’odio” che pervade Israele. Anche la moderata ex ministra degli esteri Tzipi Livni si vide costretta a definire “orribile” quel discorso, e il portavoce del Dipartimento di stato dell’amministrazione Obama ammise che quel discorso non era di nessun aiuto e suscitava preoccupazione. (Ma attenzione: Barack Obama e John Kerry non si precipitarono a rimproverare pubblicamente Abu Mazen, come notoriamente fecero più volte con Netanyahu su infrazioni molto minori).

Nel 2015 Abu Mazen accusò Israele di architettare un piano per “minare i santuari islamici e cristiani a Gerusalemme”, e si mise a esortare esplicitamente e a incoraggiare le violenze palestinesi contro Israele a Gerusalemme. “Dobbiamo impedire in qualunque modo ai coloni di entrare nel Nobile Santuario – tuonò in quei giorni Abu Mazen – Questa è la nostra al-Aqsa e la nostra chiesa. Non hanno il diritto di entrare e profanarla. Dobbiamo affrontarli e difendere i nostri luoghi sacri”. La smodata retorica di Abu Mazen in pratica spianò la strada al tentato assassinio all’attivista del Monte del Tempio Yehuda Glick e garantì l’imprimatur presidenziale dell’Autorità Palestinese ai tentativi di quell’anno di trasformare il Monte del Tempio nel più incandescente campo di battaglia tra Israele e mondo arabo. Non contento, disse anche che l’Autorità Palestinese non si sarebbe più considerata vincolata dalla firma apposta sugli Accordi di Oslo.

Abu Mazen in compagnia della terrorista Amana Muna, scarcerata nel quadro del ricatto palestinese per la liberazione dell’ostaggio Gilad Shalit. Nel gennaio 2001 Amana Muna, con alcuni complici, sequestrò e uccise a sangue freddo il 16enne israeliano Ofir Rahum attirandolo in una trappola con profferte sessuali via internet

Nel 2016 Abu Mazen chiese alla Gran Bretagna di scusarsi con il popolo palestinese per la Dichiarazione Balfour e le sue “catastrofi, miserie e ingiustizie”. Continuò poi a blaterare di “aggressioni e provocazioni israeliane contro la santa moschea di al-Aqsa”, spingendosi ad accusare senza ritegno Israele di “esecuzioni extragiudiziali” (intendendo i terroristi uccisi mentre cercano di compiere attentati).

Dunque, cosa ci vorrà ancora perché i benintenzionati pacifisti e la comunità diplomatica internazionale si decidano a lasciar perdere Abu Mazen e prendano in considerazione altre opzioni? Si tratta di una questione importante per via di un precedente storico cruciale. Israele subì comportamenti simili con Arafat durante il processo di Oslo. Anche allora pacifisti e amministrazione Clinton si attaccarono a tal punto al boss palestinese e al concetto di negoziare con lui che preferivano ignorare che sosteneva il terrorismo e alimentava l’odio verso israeliani ed ebrei. Chi presentava le prove di questi comportamenti di Arafat veniva bollato come nemico della pace. Qualsiasi attenzione alle “pecche” di Arafat veniva considerata uno sviamento dalla necessità di concentrarsi sul promuovere i negoziati sulla pace.

Lo stesso patetico atteggiamento si ripete con Abu Mazen. Il suo estremismo viene ignorato, il suo ostruzionismo trascurato, la sua corruzione tollerata, la sua repressione dei critici di mentalità democratica viene pericolosamente sottovalutata. E intanto tutti aspettano col fiato sospeso di vedere se quest’anno Abu Mazen, sotto pressione dell’amministrazione Trump, terrà un discorso un filino più morbido degli anni scorsi. Ma in fondo, che differenza può mai fare?

(Da: Israel HaYom, 15.9.17)

Si veda anche: novembre 2012, Il discorso che Abu Mazen NON ha fatto all’Onu