Abu Mazen: «Non un solo israeliano nel futuro stato palestinese»

Il presidente dell’Autorità Palestinese ribadisce intransigenza e pre-condizioni

 Il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen)

Il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen)

Alla vigilia della ripresa a Washington dei colloqui di pace, dopo quasi tre anni di stallo, il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) ha esposto lunedì la sua visione sullo status finale dei rapporti israelo-palestinesi affermando che nessun civile o militare israeliano potrà rimanere nel territorio del futuro stato palestinese e che i palestinesi reputano illegali tutte le attività edilizie ebraiche in tutti gli insediamenti nelle terre al di là della linea del ’67 (Gerusalemme compresa).

“Nella soluzione definitiva – ha detto Abu Mazen parlando ai giornalisti durante la sua recente visita al Cairo – non si dovrà vedere un solo israeliano, civile o militare, nelle nostre terre”. Abu Mazen ha lasciato intendere una possibile apertura soltanto sull’ipotesi di una “presenza multinazionale” come quelle di stanza nel Sinai e nel Libano meridionale. Israele ha più volte dichiarato che punta a mantenere una presenza militare al confine con la Giordania per evitare sorprese da est e prevenire un eventuale afflusso di uomini e armamenti in Cisgiordania.

Il presidente dell’Autorità Palestinese, che si trovava al Cairo per la sua prima visita in Egitto dopo la destituzione di Mohammed Morsi, ha incontrato lunedì il presidente ad interim egiziano Adli Mansour come manifestazione di sostegno al governo egiziano nominato dai militari. L’incontro fra i due ha avuto luogo mentre le autorità egiziane stanno indagando sul ruolo avuto da Hamas, la fazione palestinese rivale a quella di Abu Mazen, nella sanguinosa evasione nel 2011 di Morsi e altri membri della Fratellanza Musulmana dal carcere in cui erano stati rinchiusi dal regime di Hosni Mubarak.

Per quasi tre anni i rappresentanti palestinesi hanno bloccato la ripresa dei colloqui con Israele ponendo una serie di pre-condizioni come: la scarcerazione di detenuti palestinesi e arabo-israeliani condannati prima degli Accordi di Oslo per reati contro la sicurezza, il congelamento completo delle attività edilizie ebraiche al di là della ex linea armistiziale del 1949-67, il riconoscimento da parte di Israele della ex linea armistiziale del 1949-67 come base dei futuri confini.

Domenica scorsa il governo israeliano ha approvato la scarcerazione graduale, a colloqui iniziati, di 104 detenuti arabi.

Parlando lunedì al Cairo, Abu Mazen ha ribadito le sue condizioni respingendo ogni possibile compromesso. “C’era questa richiesta – ha detto – di poter costruire solo qui o lì, ma io ho detto di no. Ho affermato ad alta voce e per iscritto che, per noi, tutti gli insediamenti nella loro interezza sono illegittimi”.

Secondo fonti palestinesi, i rappresentanti palestinesi non hanno rinunciato alle loro pre-condizioni e si attendono che nei colloqui dei prossimi giorni gli americani le soddisfino con la pubblicazione di una dichiarazione che sancisca le linee del ’67, cercando poi di costringere gli israeliani ad accettarla come condizione per proseguire i negoziati.

I rappresentanti israeliani hanno ripetutamente rifiutato di accettare le pre-condizioni palestinesi affermando che si tratta di argomenti oggetto del negoziato che devono essere concordati con la fine delle trattative, non prima del loro inizio.

“Se, per proseguire il dialogo, devo scegliere fra Israele che accetta di congelare le costruzioni negli insediamenti e Israele che accetta uno stato (palestinese) sulle linee del ’67 – ha dichiarato alle Reuters Tayyeb Abdul Rahim, uno degli stretti consiglieri che hanno accompagnato Abu Mazen al Cairo – io dico che è più importante la seconda, perché significa sancire che tutti gli insediamenti sono illegittimi”.

(Da: Jerusalem Post, israele.net, 31.7.13)

 

Il segretario di stato Usa John Kerry con l'ex ambasciatore americano in Israele Martin Indyk, nominato inviato degli Stati Uniti per i colloqui di pace israelo-palestinesi

Il segretario di stato Usa John Kerry con l’ex ambasciatore americano in Israele Martin Indyk, nominato inviato degli Stati Uniti per i colloqui di pace israelo-palestinesi

Martin Indyk, l’ex ambasciatore americano in Israele che lunedì il segretario di stato John Kerry ha nominato inviato speciale di Washington per i negoziati di pace israelo-palestinesi, ha accettato l’incarico esprimendo ottimismo e determinazione. “La pace è possibile”, ha detto ai giornalisti. Tuttavia lo stesso Indyk, non più di un anno e mezzo fa, esprimeva un’opinione alquanto diversa e piuttosto pessimista sulle prospettive di pace tra israeliani e palestinesi. Intervistato dalla radio israeliana Galei Tzahal su cosa pensasse della probabilità che le due parti potessero riprendere i negoziati diretti, Indyk aveva risposto: “Non sono particolarmente ottimista perché penso che il nocciolo della questione è che le massime concessioni che il governo d’Israele può fare non corrispondono ai requisiti minimi su cui Abu Mazen insiste. In queste condizioni è possibile continuare i colloqui, che in sé sono una buona cosa, ma faccio molta fatica a credere che essi possano portare a un accordo”.

(Da: Ha’aretz, 30.7.13)

 

Nel suo libro “Innocent Abroad”, pubblicato nel 2009, Martin Indyk scriveva fra l’altro: “La maggior parte degli israeliani considera degli errori i ritiri unilaterali dal Libano [maggio 2000] e da Gaza [estate 2005] perché gli attacchi violenti sono continuati. Gli israeliani sosterranno ampie concessioni solo in cambio della certezza che a Israele non verranno avanzate ulteriori richieste e rivendicazioni”.

Scriveva poi, in un altro passo dello stesso libro: “Solo quando un leader arabo arriva alla conclusione che il tempo lavora contro di lui, che i rischi nel restare aggrappati allo status quo sono maggiori dei pericoli di un cambiamento, solo a quel punto c’è qualche probabilità che si smuova. Quando arriva il raro momento in cui un leader arabo manifesta la volontà di fare la pace, e rivela un senso di urgenza, è indispensabile cogliere immediatamente l’occasione e perseguirla senza sosta fino a quando si ottiene la svolta e l’accordo viene fatto”. I leader arabi, scriveva Indyk, “quando decidono di fare la pace è perché sono convinti che è in gioco la loro sopravvivenza, non perché glielo chiede il presidente degli Stati Uniti”.

(Da: Times of Israel, 30-7-13)