Acrobazie propagandistiche

A proposito della pretesa palestinese di continuare a definire Gaza territorio occupato.

Da un articolo di Dore Gold

image_892Anche dopo il completo ritiro israeliano di tutti i militari e civili dai 21 insediamenti nella striscia di Gaza, esponenti e portavoce ufficiali palestinesi cercano di sostenere che il disimpegno cambia poco e che, per quanto li riguarda, “Gaza rimane territorio occupato”.
Tre sono gli argomenti usati dai palestinesi per sostenere questa tesi. Primo, come ha detto il ministro degli esteri dell’Autorità Palestinese Nasser al-Kidwa, il territorio resta “occupato” finché i palestinesi non potranno esercitare “la piena sovranità” su di esso, con particolare riferimento al controllo sui valichi di frontiera terrestri, marittimi e aerei.
Secondo, come ha detto il capo negoziatore dell’Olp Saeb Erekat, dal momento che striscia di Gaza e Cisgiordania sono indicate dagli accordi di Olso come una “unica unità territoriale”, il disimpegno da Gaza riguarda solo una porzione del territorio in discussione e dunque il suo status giuridico rimane immutato.
Infine, secondo il punto di vista di Hamas, la definizione di territorio “occupato” è direttamente legata all’auto-proclamata missione di “espellere l’occupante da tutta la terra”. Se Hamas rifiuta di ammettere un cambiamento nella situazione dopo il ritiro di Israele, è perché sostiene, come ha detto il suo capo a Gaza Mahmoud al-Zahar, che “tutta la Palestina è terra nostra: né la liberazione di Gaza, né quella della Cisgiordania e nemmeno la liberazione di Gerusalemme ci potrebbero bastare. Hamas continuerà la lotta armata fino alla liberazione di tutte le nostre terre. Noi non riconosciamo lo Stato di Israele, né il suo diritto di tenere un solo centimetro di Palestina”.

Quello di essere vittime dell’occupazione israeliana è da decenni l’argomento di punta usato dai portavoce palestinesi nella loro battaglia contro la politica di Israele in Cisgiordania e striscia di Gaza, a dispetto del fatto che lo status giuridico di quei territori sia conteso e in discussione sin da quando vennero conquistati alla Giordania e all’Egitto dalle Forze di Difesa israeliane durante la guerra dei sei giorni del giugno 1967.
La sola autorità sovrana riconosciuta in precedenza su quei territori era stata quella dell’Impero Ottomano dal 1517 al 1917. Nel 1923, con lo smantellamento dell’Impero Ottomano, i turchi rinunciarono formalmente alle loro rivendicazioni su questi territori. Subentrò il Mandato della Società delle Nazioni sulla Palestina, affidato alla Gran Bretagna: il Mandato prevedeva che questi territori diventassero parte del “national home” (focolare nazionale) ebraico. Nel 1947 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite raccomandò che Cisgiordania e striscia di Gaza entrassero a far parte del futuro “stato arabo” che sarebbe dovuto sorgere a fianco dello “stato ebraico” nella ex Palestina Mandataria. Ma questa proposta di spartizione venne rifiutata dagli Stati arabi dell’epoca. Pertanto, l’esatto status giuridico di questi territori è rimasto indeterminato.
Nei decenni successivi, tuttavia, sfruttando il sostegno automatico delle nazioni arabe, del blocco sovietico e dei paesi non-allineati, l’Olp è riuscita a far passare all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite decine di risoluzioni (non vincolanti) che definiscono quelle aree come “territori palestinesi occupati”. Successivamente, un analogo blocco di alleanze è stato usato per inserire questa definizione politica di parte nelle risoluzioni di vari altri organismi Onu, compresa la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja.
Ma il termine “occupazione” non è tanto una valutazione politica quanto, prima di tutto un concetto giuridico sancito dal diritto internazionale. Evidentemente, perché si abbia cessazione sul piano giuridico di un’occupazione, non è necessario che vengano completamente soddisfatte tutte le rivendicazioni di una delle parti coinvolte in un conflitto territoriale. La cessazione dell’occupazione deve, piuttosto, corrispondere ad alcuni criteri giuridici.
La maggiore fonte di diritto internazionale sono gli accordi e le convenzioni sottoscritte dagli stati, e non le risoluzioni (non vincolati) dell’Assemblea Generale dell’Onu. Il principale documento che definisce il concetto di occupazione è la Quarta Convenzione di Ginevra del 1949 “Relativa alla protezione dei civili in tempo di guerra”. Israele sin dal 1967 ha sostenuto che formalmente la Quarta Convenzione di Ginevra non dovrebbe trovare applicazione al caso di Cisgiordania e striscia di Gaza dal momento che questi territori vennero conquistati a paesi (Egitto e Giordania) che li avevano illegalmente invasi nel 1948 e che vi esercitavano un’autorità non riconosciuta internazionalmente. Secondo il suo stesso testo, la Convenzione entra in gioco quando viene occupato un territorio di uno Stato firmatario: ma striscia di Gaza e Cisgiordania non erano riconosciuti come legittimi territori degli Stati Egitto e Giordania.
Ciò nondimeno, negli scorsi 38 anni i vari governi israeliani hanno accettato di applicare “de facto” la Quarta Convenzione di Ginevra. Inoltre, la Quarta Convenzione è diventata nel frattempo uno standard internazionalmente riconosciuto per determinare diritti responsabilità degli Stati in caso di occupazione militare.
L’articolo 6 della Convenzione afferma esplicitamente che “la potenza occupante sarà vincolata per la durata dell’occupazione nella misura in cui tale potenza eserciterà le funzioni di governo sul territorio in questione”. In altre parole, ciò che crea una “occupazione” (e gli obblighi relativi) è l’esistenza di un’autorità militare che “eserciti le funzioni di governo”. Si tratta della riconferma di un principio già contenuto nella precedente “Convenzione internazionale dell’ Aja su leggi e usi della guerra terrestre” del 1907, la quale affermava: “Un territorio è considerato occupato quando è effettivamente posto sotto l’autorità dell’esercito nemico”. La Convenzione del 1907 stabiliva inoltre che “l’occupazione si riferisce solo al territorio dove tale autorità è stata istituita e può essere esercitata”. Ne segue che, se non c’è più alcun governo militare israeliano che eserciti la propria autorità o “funzioni di governo” sulla striscia di Gaza, allora la striscia di Gaza non è più territorio occupato.

È interessante considerare queste definizioni con riferimento alla situazione creata in Cisgiordania e striscia di Gaza durante il periodo degli accordi di Oslo. L’originaria Dichiarazione di Principi, firmata nel 1993, trovò una prima applicazione con l’Accordo Gaza-Gerico del 1994. Nel 1995 l’Accordo ad Interim estese l’applicazione ai centri abitati palestinesi nel resto della Cisgiordania. In sostanza, ciò che Israele fece con l’applicazione degli accordi di Oslo fu cessare il suo governo militare sui palestinesi, sostituendolo con l’Autorità Palestinese sotto Yasser Arafat. Non erano più funzionari israeliani che facevano da sindaci nelle città palestinesi, non c’era più bisogno di un’amministrazione civile israeliana per rilasciare patenti di guida o licenze edilizie. Fondamentalmente Israele trasferiva tutta una serie di specifiche sfere d’autorità dal suo precedente governo militare al governo dell’Autorità Palestinese, ad eccezione degli affari esteri e della sicurezza “esterna” (ai confini), come espressamente previsto dagli Accordi interinali (in attesa del negoziato sullo status definitivo). Oslo, dunque, non creò uno stato palestinese. Ma alla metà degli anni ’90, con Arafat che governava la vita civile e la sicurezza interna del 90% della popolazione palestinese, era difficile sostenere che i palestinesi fossero ancora sotto occupazione militare israeliana.
Infatti, già nel 1994 il consulente legale della Croce Rosse Internazionale Hans-Peter Gasser asseriva che la sua organizzazione non aveva più ragione di monitorare il rispetto israeliano della Quarta Convenzione di Ginevra nella striscia di Gaza e nel distretto di Gerico, dal momento che la Convenzione non vi trovava più applicazione dopo l’avvento dell’amministrazione palestinese su quelle aree. Tutt’al più i palestinesi potevano sostenere che Oslo li aveva messi in una posizione giuridica ambigua, visto che esercitavano essi stessi la maggior parte delle funzioni di auto-governo mentre Israele conservava alcuni poteri residui.

Se dunque ha così poco fondamento giuridico usare il concetto di “occupazione” su Cisgiordania e striscia di Gaza nell’era post-Oslo, come mai i palestinesi hanno continuato a farlo? È perché è così importante per loro continuare a presentare in questi termini la loro situazione, anche dopo il disimpegno da Gaza? Per diversi motivi.
Prima di tutto perché usare in modo martellante il termine “occupazione” rientra nel modo con cui i palestinesi rafforzano la loro rivendicazione di sovranità su un territorio la cui sovranità, in realtà, è oggetto di contesa e di negoziato. Come si è ricordato, non vi è stata una sovranità legalmente riconosciuta su Cisgiordania e striscia di Gaza sin dal 1923. Il piano di spartizione dell’Onu del 1947 non diede vita a un nuovo stato arabo palestinese, ed anzi fu seguita nel 1948 dall’occupazione illegale di Cisgiordania e striscia di Gaza da parte di paesi arabi invasori. Anziché considerare questi territori per quello che sono, cioè una sorta di “buco nero” della sovranità rivendicato da diversi soggetti contendenti, l’Autorità Palestinese non cessa mai di ribadire a tutto il mondo che si tratta di “territori palestinesi occupati” per affermare propri diritti esclusivi su di essi, come se un tempo fossero già stati sotto una fantomatica sovranità palestinese.
In secondo luogo, il riferimento costante a una persistente “occupazione” israeliana offre ai palestinesi un efficacissimo argomento da usare con i mass-media, argomento al quale non intendono rinunciare facilmente. L’occupazione (vera o presunta) mette automaticamente i palestinesi nella posizione delle vittime del conflitto arabo-israeliano, e Israele nella scomoda parte dell’oppressore. E serve a far dimenticare il fatto che Israele nel 1967 penetrò in quei territori nel corso di una guerra per la difesa della propria sopravvivenza, presentandolo invece come un aggressore.
Ma c’è un ulteriore, importante vantaggio, per i portavoce palestinesi, nel continuare a parlare di occupazione. Ciò offre infatti un contesto ideale entro il quale giustificare il terrorismo praticato dai gruppi armati palestinesi (deresponsabilizzando nel contempo l’Autorità Palestinese). […] Invece, una volta che un territorio non è più “occupato”, cade la foglia di fico con cui si cerca di coprire le violenze politiche.
Un tale sviluppo porrebbe grossi problema all’attuale dirigenza palestinese. Certo, Mahmoud Abbas (Abu Mazen) ha più volte affermato che la violenza non rende un buon servizio agli interessi dei palestinesi, ed si dichiara convinto che la cosiddetta seconda intifada sia stata un errore strategico. Ma molti miliziani di Fatah, il movimento di Abu Mazen, compresi quelli delle Brigate Martiri di Al Aqsa, sono tuttora convinti della bontà del ricorso alla violenza politica. Inoltre, anziché fronteggiare Hamas, Abu Mazen ha deciso di cooptare il movimento jihadista all’interno dell’Autorità Palestinese con le elezioni parlamentari del gennaio 2006. Dunque, l’Autorità Palestinese non ha bisogno dell’argomento dell’occupazione per la sua propria strategia contro Israele, ma ne ha bisogno per continuare a fornire copertura politica a molti suoi uomini e, soprattutto, ai suoi futuri partner politici. I quali, dal canto loro, continuano a mettere bene in chiaro che non intendono rinunciare a quella che chiamano “lotta armata” contro Israele. Come già Arafat trent’anni fa, anche oggi Hamas vende la sua giustificazione della violenza e del terrorismo impacchettata nella retorica accattivante “contro l’occupazione”.

Il fatto che un’ampia gamma di portavoce palestinesi e di loro alleati continui a denunciare l’occupazione della striscia di Gaza anche quando i palestinesi vi esercitano il loro auto-governo ed è stata rimossa ogni presenza militare e civili israeliana, è un dato in sé eloquente: indica che la denuncia dell’occupazione non è tanto una rigorosa definizione storico-giuridica, quanto uno strumento politico spuntato al servizio dell’agenda diplomatica e militare dell’Olp contro Israele.
I palestinesi possono anche non gradire le limitazioni che sono state mantenute allo spazio aereo e alle acque territoriali della striscia di Gaza. Ma anche l’Egitto, tanto per fare un esempio, è soggetto a limitazioni della sua sovranità sul Sinai, previste dalla disposizioni stabilite con il Trattato di pace del 1979. Eppure nessuno sosterrebbe che tali limitazioni alla sovranità egiziana costituiscano una forma di “occupazione”. Nell’affollato spazio aereo europeo, per fare un altro esempio fra i tanti possibili, molti piccoli stati non possono esercitare un pieno controllo sul loro spazio aereo senza coordinarsi con i vicini più grandi. La loro sovranità non è per questo compromessa.
Oltre a questo, Israele avanza legittime preoccupazioni sulla sicurezza, dati i precedenti palestinesi in fatto di violazioni delle disposizioni per la sicurezza previste dagli Accordi di Oslo, non ultimi i notevoli tentativi da parte dell’Autorità Palestinese di importare illegalmente via mare grossi carichi di armi da guerra, come quelli sulle navi cargo Santorini e Karine A.
Eppure il governo israeliano ha dimostrato di non voler abusare dell’autorità che ancora esercita sui confini della striscia di Gaza, come prova la decisione di ritirare le truppe dalla Philadelphi Route fra Egitto e striscia di Gaza, e la disponibilità a permettere la riapertura del porto di Gaza. Se tuttavia Israele ritenesse necessario rientrare nella striscia di Gaza per contrastare gravi minacce terroristiche, a questo punto lo farebbe non come una potenza occupante, bensì come uno stato confinante che deve difendersi da un pericolo incombente che scaturisce da un paese vicino, come previsto dall’articolo 51 della Carta dell’Onu.

Al di là della guerra propagandistica fra le due parti, vi sono questioni molto serie di cui Israele deve farsi carico circa la striscia di Gaza. Anche se formalmente non ha più obblighi umanitari verso la popolazione civile di Gaza, Israele dovrebbe comunque sforzarsi di farsi carico di alcune responsabilità, se richiesto dagli stessi palestinesi. Ma il ruolo di Israele sarà quello di uno stato confinante, come accade in altre parti del mondo. Israele non accoglierà profughi palestinesi, ma potrà ben offrire il proprio sostegno concreto agli sforzi di altri stati e di enti internazionali, nonostante la cessazione delle sue residue autorità sulla striscia di Gaza dopo il completamento del disimpegno.

Dore Gold, presidente del Jerusalem Center for Public Affairs, è stato rappresentante d’Israele all’Onu negli anni 1997-99 e membro della delegazione israeliana alla Congerenza di Madrid (1991) e ai negoziati di Wye River (1998)

(Da: Jerusalem Issue Briefs, Vol. 5, No. 3, 26.08.05)

Nella foto in alto: Poliziotti palestinesi osservano mercoledì il passaggio di palestinesi attraverso il confine fra striscia di Gaza ed Egitto, sotto controllo egiziano-palestinese dopo il ritiro di Israele.