Aharon Appelfeld

Alcune osservazioni sul romanzo "Tutto ciò che ho amato"

Aharon Appelfeld

Alcune osservazioni sul romanzo Tutto ciò che ho amato

Trad. dall’ebraico di Anna Linda Callow

La maggior parte della mia scrittura è autobiografica. Anche il libro Tutto ciò che ho amato è autobiografico, non nei particolari ma nel senso ampio del termine. Proverò a spiegarmi. La letteratura non è una documentazione del passato. La documentazione del passato dà origine alla cronologia, alla storia, non alla letteratura. La letteratura è per lo più tridimensionale e include passato, presente e futuro, in altre parole le prove cui l’uomo è sottoposto nel corso della sua vita. Solo la fusione dei tempi crea letteratura.

Tutto ciò che ho amato tratta di una famiglia ebraica assimilata alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale. Io provengo da una famiglia ebraica assimilata. Nella mia famiglia si evitava di usare la parola ebreo, ci si identificava con la cultura europea, l’ebraismo era considerato anacronistico. L’ebreo assimilato credeva che se si fosse staccato dalla sua eredità ebraica, l’Europa lo avrebbe accolto a braccia aperte.

Un ebreo assimilato vive in modo consapevole e inconsapevole in due mondi, possiede due identità. Da un lato si è staccato dalla collettività ebraica e dall’altro stenta a radicarsi nel suo nuovo ambiente. L’irrequietezza e la tensione causate dalla doppia identità hanno creato figure come quella di Kafka. Kafka vive tutta la sua vita diviso tra la negazione del suo retaggio ebraico e la sete di conoscere da vicino l’ebraismo in tutte le sue manifestazioni religiose, filosofiche ed estetiche. Come è noto, Kafka studiò l’ebraico, lo yiddish, seguì lezioni di ebraismo e sognò perfino di stabilirsi nella terra d’Israele.

Un’altra figura, completamente diversa, è Marcel Proust, la cui madre, tanto amata, era ebrea. Come è noto, anch’egli aveva un legame interessante e complesso con gli ebrei e l’ebraismo.

L’assimilazione è l’allontanamento da sé e, talvolta, l’odio di sé, e ha aperto agli autori ebrei svariate possibilità di riflessione. L’assimilazione è, in realtà, la condizione dell’ebreo moderno. La tensione in cui si trova l’ebreo assimilato non resiste col passare del tempo. O l’ebreo la porta alle estreme conseguenze e si fonde nella società in cui vive, o torna a se stesso e si ricongiunge con la propria eredità.

In Tutto ciò che ho amato ho cercato di descrivere una famiglia ebraica assimilata che l’ambiente circostante rifiuta di accogliere. Descrivo inoltre la tensione tra il padre artista e la madre. Nel mezzo c’è un bambino di nove anni. Ho voluto vedere il mondo attraverso gli occhi di un bambino.

La visione del bambino è istintiva, primaria e, nella maggior parte dei casi, immediata. È povera di concetti astratti ma ricca di particolari vitali. Il bambino osserva da vicino come il padre e la madre scappano l’uno dall’altra, come scappano dalla loro eredità ebraica. L’ambiente circostante rifiuta di accoglierli come propri membri e vede in loro sempre degli ebrei. Il bambino abita a volte con il padre e a volte con la madre. I genitori lavorano, e per la maggior parte del tempo resta solo o in compagnia della ragazza rutena a cui è affidato. Da lei e non dai genitori apprende di Dio e della fede in lui.

Nella famiglia ebraica assimilata la fede religiosa non ha una funzione vitale. L’assimilazione ebraica era razionalista, credeva nel progresso, nella ragione. L’assimilazione era vista come un processo positivo. L’allontanamento dal particolarismo ebraico e la fusione con la cultura europea erano percepiti come un contributo importante all’universalismo.

Questa tendenza fu mutata dalla Seconda Guerra Mondiale. L’ostilità nei confronti degli ebrei non è una novità, ma nel ventesimo secolo ha assunto un altro aspetto. Nel Medioevo l’ebreo poteva abbandonare la propria fede ed essere subito considerato un cristiano come tutti gli altri. Durante la Seconda guerra mondiale questa possibilità gli fu negata. Anche se si convertiva, anche se i suoi genitori prima di lui si erano convertiti, era considerato da sterminare, per via del sangue ebraico che gli scorreva nelle vene. L’antisemitismo moderno vede l’ebreo come un organismo biologico che porta dentro di sé un’eredità di sangue nociva che va eliminata dal mondo.

Il mio libro non descrive la Shoah, ma ciò che accadde prima. Verso la fine del diciannovesimo secolo gli ebrei dell’Europa orientale cominciano a perdere la fede nella tradizione che hanno ereditato, in particolare i membri dell’intellighenzia, la cultura europea sembra loro superiore, più vera, più illuminata. Il loro desiderio di integrarsi nell’ambiente circostante è così forte che non vedono, o non vogliono vedere che l’ambiente circostante rifiuta di accoglierli.

L’ebreo dell’Europa orientale aspira a diventare europeo a ogni costo. Prende d’assalto le università. Studia medicina, scienze, diritto, si dedica alle arti. Questo assalto non viene interpretato correttamente. Agli occhi degli europei appare come un’invasione in un territorio che non gli appartiene. In particolare nel campo artistico. Le arti in Europa sono per lo più legate al concetto di nazione. L’ingresso dell’ebreo è considerato come un’intrusione dannosa.

Ho menzionato alcune idee che riguardano il romanzo, ma questo non è un romanzo ideologico. La sua parte fondamentale è il racconto dei fatti, dei personaggi che vi agiscono e del personaggio principale, il bambino, dilaniato tra l’amore per il padre e quello per la madre. Alla fine si sentirà tradito da entrambi.

L’eroe della letteratura moderna, se mi è concessa una generalizzazione, è l’uomo complesso, in conflitto, senza radici e sballottato tra dubbi e sensi di colpa. Nella letteratura moderna non c’è quasi posto per l’ingenuità, l’innocenza, la curiosità primordiale. In questo romanzo ho voluto restituire a me stesso qualcosa dell’infanzia, il tempo che precede i tormenti della coscienza. Nel mondo primordiale siamo ancora uniti al minerale, al vegetale e all’uomo in modo immediato, e, allo stesso tempo, anche al mondo trascendentale dal quale l’uomo moderno si è allontanato.

Non vi è qui idealizzazione, né ricerca di consolazione, né autoillusione ma un certo tipo di convinzione che qualcosa di quell’interezza sia ancora rimasto in noi, e se non in noi, perlomeno nel bambino.

Infine questo è ovviamente un romanzo sul destino dell’ebreo moderno, ma è anche un libro, così spero, sull’Europa tra le due guerre.

[Per gentile concessione dell’autore]