Aharon Appelfeld

Un sogno spezzato, o dello yiddish in Israele

image_188Un sogno spezzato, o dello yiddish in Israele
Aharon Appelfeld, Notte dopo notte, trad. di Ofra Bannet e Raffaella Scardi, Giuntina, Firenze 2004, pp. 212, € 12.

«A volte ho la sensazione che lo yiddish non sia altro che un lungo grido rappreso».

La scrittrice americana Cynthia Ozick ha scritto qualche anno fa un racconto dal titolo Invidia, o lo yiddish in America. Vi narrava la storia di tanti scrittori yiddish che una volta giunti negli Stati Uniti erano costretti a una vita di stenti e, fatto ancora più grave, di anonimato. L’unico autore di successo era Bashevis Singer, il quale aveva deciso di pubblicare la versione definitiva dei suoi romanzi in inglese. La sua fama era quindi, secondo gli intellettuali a lui contemporanei, dovuta principalmente a questo fatto. Restando legati alla lingua yiddish, si rischiava di scrivere per i fantasmi del Vecchio Mondo, abbandonato e distrutto.
In Israele la situazione della lingua yiddish è stata diversa. Qui il problema non è stato la naturale assimilazione alla lingua ufficiale, come nel caso degli Stati Uniti, bensì una precisa politica del neonato Stato d’Israele, che aveva messo fuorilegge lo yiddish. Recentemente, in una serie di documentari della televisione israeliana sull’umorismo in Israele, una puntata è stata dedicata ai grandi attori di teatro yiddish Dzigan e Schumacher. Sopravvissuti alla persecuzione ebraica in Europa e al carcere sovietico, i due attori comici dovevano arrivare nella Israele degli anni ’50 e scoprire che una legge proibiva la rappresentazione di spettacoli teatrali in lingua yiddish.
Questo è il tema dell’ultimo romanzo di Aharon Appelfeld apparso in traduzione italiana, Notte dopo notte (trad. di Ofra Bannet e Raffaella Scardi, Giuntina, Firenze 2004). Appelfeld è uno scrittore israeliano ormai noto ai lettori italiani – si vedano in particolare Katerina (Feltrinelli, Milano 1994), Storia di una vita (Giuntina, Firenze 2001) e Tutto ciò che ho amato (Giuntina, Firenze 2002). Purtroppo esauriti sono altri due romanzi di Appelfeld, il bellissimo Badenheim 1939 (Mondadori 1981) e Il rifugio (Mondadori 1985). La maggior parte dei suoi romanzi sono ambientati in Europa, alla vigilia della II Guerra Mondiale. Molte volte egli ha descritto il mondo degli ebrei assimilati, che si sono allontanati dalle tradizioni del loro popolo e sono rimasti come disarmati, indifesi, ingenuamente fiduciosi in una emancipazione che secondo l’autore è stata una illusione letale. In questo romanzo egli torna invece, se pure in modo diveso, su un altro tema a lui caro, e cioè sul problema del passaggio dal mondo ebraico dell’Europa Orientale allo Stato d’Israle, e sulle difficoltà di molti immigranti, alcuni dei quali sopravvissuti, a inserirsi nella società israeliana del Dopoguerra. Egli ne aveva già scritto ad esempio in Makhvat ha’or e nella sua autobiografia, Storia di una vita, ma in entrambi i casi i protagonisti erano bambini e ragazzi, traumatizzati dalla storia e subito inseriti in una realtà, quella israeliana, che chiedeva loro di assumere una nuova identità conforme all’ideologia sionista di quegli anni. Nel romanzo Notte dopo notte la storia che viene raccontata è invece quella di uomini e donne che nei ghetti e nei campi di concentramento hanno perso tutta la famiglia, compresi moglie, mariti, figli, e che insieme a questo non riescono ad accettare l’imposizione della nuova identità cui abbiamo accennato prima, una identità che esigeva si dimenticasse l’Europa e, nel caso specifico, la lingua degli ebrei orientali, lo yiddish. Nella pensione Precht, nel quartiere di Rekhavia, a Gerusalemme, vivono questi sopravvissuti, ognuno con la sua storia di dolore alle spalle, coi suoi incubi, i suoi sensi di colpa, le battaglie per continuare a vivere. Molti passano la notte tra bicchieri di cognac e tazze di caffé nero, cercando di fuggire a se stessi: «Ognuno di noi ha una strada in una città lontana», dice Manfred, la voce narrante, «una casa, una cucina, un terrazzo, a volte un giardino, e di notte, quando le barriere vengono cancellate e le distanze s’accorciano, vaghiamo da un posto all’altro. Di tanto in tanto ci perdiamo e ci risvegliamo spaventati» (p. 52). Ciò che unisce tutti in una amicizia non priva di conflitti ma anche di atti di generosità è l’amore per la lingua yiddish, il desiderio che essa non muoia, che la sua letteratura non venga dimenticata e disprezzata. Il pittore Kirzel difende con fervore questo «grande tesoro»: «Un altro popolo si metterebbe a danzare alla vista di una tale ricchezza, ma noi siamo stupidi ed egoisti, buttiamo i libri dei nostri padri nella spazzatura. I tedeschi li hanno bruciati e noi li gettiamo nella spazzatura.» E ancora: «i padri sono stati assassinati dai tedeschi, e i figli scampati non hanno saputo conservare né la loro lingua né i loro libri, subito dopo la strage ne hanno adottati altri.» (p. 148).
In questo microcosmo lo yiddish e l’ebraico invertono i propri ruoli: lo yiddish, la lingua parlata, diventa lingua santa, la lingua degli ebrei scomparsi nello sterminio nazista, quindi la lingua della fedeltà ai morti, mentre l’ebraico, la lingua santa del popolo ebraico, torna ad essere parlata e subisce un processo di laicizzazione. «Senza lo yiddish siamo mutilati, camminiamo con le stampelle.» vorrebbe gridare Manfred, «Io amo l’ebraico, ma non può occupare il posto di mia madre. L’ebraico non è una lingua che si può abbracciare. È, Dio mi perdoni, freddo come il ghiaccio. Quale demone ci ha spinti a scambiare una lingua madre con una lingua di pietra? Chi ha bisogno di eternità?» (p. 126). In questa piccola pensione dove tante vite mutilate si sono incontrate, la solidarietà riuscirà a salvare le vite dei protagonisti, ma i progetti di attività culturali yiddish naufragano, l’ebrea polacca che si è salvata in un convento cattolico tornerà in Polonia, nel suo mondo di silenzio e preghiera, e il poeta Zeidel (letteralmente “nonnino”) non riuscirà a trattenerla; il pittore sempre ubriaco Kirzel resterà in prigione; il protagonista Manfred affitterà una casa a Tel-Aviv per essere vicino alla figlia malata, chiusa in una casa di cura. Come sempre nei libri di Appelfeld, non c’è odio. C’è tristezza, e il senso di una perdita incolmabile, e anche un po’ di rassegnazione. Nello stile semplice e denso che caratterizza la sua prosa, egli si pone tra quegli intellettuali che non hanno accettato di vedere la nascita di uno Stato ebraico come una rivoluzione all’interno della storia ebraica, ma chiedono all’esistenza nazionale di essere un proseguimento della vita nella diaspora. «Non siamo venuti qui per cambiare, […] noi non vogliamo essere diversi. Vogliamo essere quel che eravamo e quel che siamo. Proprio come gli ebrei di tutte le generazioni, senza alcun abbellimento» (p. 12). «Perché mai dovremmo cambiare? […] Noi non vogliamo trasformarci in contadini ucraini, come sognavano i sionisti, non ci interessa imitare i popoli fra i quali viviamo. Non desideriamo essere normali. Abbiamo già visto a cosa può portare la normalità, e la riteniamo vergognosa. Noi non ci teniamo a essere come gli altri popoli, preferiamo rimanere come siamo sempre stati, generazione dopo generazione, né più né meno. Anzi, ora è ancora più importante studiare il Talmud, i commentari di Maimonide, il libro dello Zohar, il chassidismo, tutto quello che gli ebrei hanno sempre imparato, i libri che hanno letto per generazioni.» (p. 59) Lo yiddish e i testi della tradizione ebraica appartengono per Appelfeld al cuore vivo del popolo ebraico. Resta il sospetto che il titolo, Notte dopo notte, non si riferisca unicamente agli incontri notturni nel corridoio della pensione, ma piuttosto al fatto che per tanti sopravvissuti alla notte della persecuzione è succeduta la notte di un’esistenza in un paese che chiedeva loro di dimenticare. Ma sarebbe una lettura troppo amara, sia del romanzo che della realtà israeliana, che negli ultimi anni ha cominicato a rileggere la propria storia e a ripensare se stessa al di fuori dei cosiddetti miti fondatori. E forse Appelfeld, con la sua scrittura, vi contribuisce.