Aiuti economici e pie illusioni

L'economia palestinese non può svilupparsi soltanto grazie alla buona volontà della comunità internazionale

Da un articolo di Dan Diker

image_1937L’assassinio, lo scorso 20 novembre, dell’automobilista israeliano Ido Zuldan, in un agguato stradale a sangue freddo, fu il contributo dato dalle Brigate Martiri di al-Aqsa (affiliate a Fatah, ma finanziate dall’Iran) al processo di pace che stava per essere rilanciato ad Annapolis. Il messaggio del gruppo estremista palestinese era chiaro: rifiuto di qualunque processo politico con Israele e rifiuto della creazione di uno stato palestinese libero, democratico, smilitarizzato ed economicamente florido. Le Brigate al-Aqsa non sono sole. Anche Hamas, che oggi controlla la striscia di Gaza e che presto potrebbe prendere il controllo anche in Cisgiordania, è votata all’anichilimento di Israele.
Questo rifiuto palestinese non smorza l’entusiasmo con cui Israele, Stati Uniti ed Europa cercano di spingere avanti il processo di pace con iniziative economiche di vasta portata, volte a favorire il decollo dell’economia palestinese. L’inviato del Quartetto Tony Blair ha annunciato un grande progetto che dovrebbe creare migliaia di posti di lavoro per i disoccupati palestinesi. Il presidente d’Israele Shimon Peres, in una recente visita in Turchia, ha speso gran parte delle energie per arrivare alla firma di un accordo tripartito con il suo omologo turco Abdullah Gul e palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) volto a creare un parco industriale nella Cisgiordania meridionale, vicino a Hebron.
L’idea è, mostrando ai palestinesi successi economici sul terreno, questi dovrebbero attenuare il loro sostegno ai gruppi più intransigenti. Come ha detto di recente Peres al Times di Londra, “se i palestinesi vedono che nella pacifica Cisgiordania regna la stabilità e gli standard di vita migliorano, ciò li spingerà a mettere in discussione Hamas”.
Tuttavia, nonostante le buone intenzioni, prima di suscitare ancora una volta aspettative poco realistiche, bisognerebbe questa volta tenere conto dei precedenti non proprio strabilianti ottenuti da Israele quando ha cercato di favorire lo sviluppo economico palestinese. Sin dall’inizio del processo di Oslo, nel 1993, l’entusiasmo israeliano e internazionale, spesso ingenuo e inesperto, per questo genere di progetti economici lanciati a favore dei palestinesi ha fatto fallire quegli stessi progetti prima ancora che decollassero. Altre forme di cooperazione economica nel quadro del “processo di pace congiunto” hanno sovente finito per arricchire solo affaristi, capi banda locali e gruppi terroristi, anziché andare a beneficio della classe media e della classe lavoratrice palestinese.
Ad esempio, a metà anni ’90 il progetto multi-milionario del magnate israeliano Stef Wertheimer per lo sviluppo di un parco industriale presso Rafah, nella striscia di Gaza meridionale, è andato in frantumi quando i boss finanziari locali legati a Yasser Arafat entrarono in scena pretendendo la loro fetta di torta. Altre iniziative promosse da Israele tra il 1995 e il 2000 per la creazione di parchi industriali in città della Cisgiordania come Tulkarem e Kalkilya fallirono quando gli investitori israeliani e internazionali cercarono di costruire i centri commerciali vicino alla Linea Verde per permettere un controllo più efficace e un accesso più facile da e per Israele: i palestinesi volevano invece che le zone industriali sorgessero nel cuore di aree dell’Autorità Palestinese come Nablus per averne il pieno controllo, col risultato che non se ne fece nulla.
L’idea di combinare investimenti e proprietà israeliana e internazionale con manodopera palestinese è stata un errore fatale. A parte i gruppi terroristici, il rifiuto da parte della classe media palestinese di questo rapporto asimmetrico ha rafforzato la sensazione palestinese che Israele stesse forgiando un Nuovo Medio Oriente “conquistando” l’economia palestinese e creando una sorta di “occupazione economica” in nome del processo di pace. Questa fu una delle principali ragioni del fallimento del summit economico di Casablanca, organizzato nel 1994 subito dopo l’avvio del processo di Oslo, all’epoca fortemente patrocinato da Israele.
In secondo luogo, i potenziali partner palestinesi nelle passate iniziative di sviluppo economico e industriale comprendevano anche personaggi del posto come i due “Mohammed” – Mohammed Rashid e Mohammed Dahlan – molto popolari fra investitori e donatori israeliani ed europei, ma che erano stati preceduti nelle strade palestinesi dalla loro reputazione di grandi corrotti e monopolisti senza scrupoli. Ciò che Dahlan, Rashid e altri “imprenditori capi banda” palestinesi rappresentano agli occhi dei palestinesi è in larga parte ciò che finì col rovesciare Fatah e portare al potere Hamas nelle elezioni parlamentari del 2006.
Infine, Hamas e Jihad Islamica, appoggiati dall’Iran, e le Brigate al-Aqsa (Fatah) non accetteranno mai che imprese e aziende israeliane e occidentali operino nelle aree palestinesi. Hamas rifiuta Israele e i suoi partner finanziari, che essa considera impegnati in un complotto per riportare al lavoro i palestinesi, sottraendoli al sacro dovere della lotta armata. La sistematica distruzione da parte di Hamas e Fatah delle zone industriali di Erez e Karni, sorte negli anni ’90 ai confini fra Israele e striscia di Gaza, illustrano perfettamente questa posizione.
Il messaggio dovrebbe essere attentamente meditato da Peres e dal governo turco nel momento in cui procedono col progetto proposto di parco industriale palestinese a Tarkumiya, sulle colline presso Hebron, e con particolare riguardo proprio alla collocazione del parco: vale a dire, il tratto cisgiordano del prospettato “corridoio garantito” di collegamento con la striscia di Gaza. Peres e Blair sperano che il parco commerciale da 500 acri offra lavoro a migliaia di palestinesi di Gaza che potranno attraversare Israele lungo il corridoio e andare a lavorare vicino a Hebron. Ma il “corridoio garantito” garantirebbe anche a Hamas, Jihad Islamica e altri gruppi terroristici l’opportunità di entrare in Cisgiordania e compiervi quel genere di attentati terroristici e di sabotaggi che hanno caratterizzato gli ultimi quindici anni di sforzi di pace bilaterali con i palestinesi.
La costruzione della pace politica ed economica con i palestinesi non può essere guidata soltanto dalla buona volontà di israeliani, americani ed europei. La classe media palestinese deve poter sviluppare la sua propria economia, affrancata dalle minacce delle bande terroristiche e dal controllo dei boss finanziari locali. Israele e comunità internazionale dovrebbero smettere di compromettere le reali possibilità di sviluppo economico palestinese imponendo progetti economici ai palestinesi, prima che questi abbiano potuto mettere in sicurezza le loro città e creare il contesto per una operosa e vitale società civile fondata su una classe media e professionale pacifica e autorevole. Altrimenti tutti gli sforzi per promuovere la pace e il benessere economico non faranno che rafforzare i gruppi estremisti, consolidare i capi banda locali e aumentare il terrorismo contro Israele.

(Da: Jerusalem Post, 26.12.07)

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