Ajami

Due opinioni diverse sul film israeliano (arabo-ebraico) che rappresenterà Israele alla serata degli Oscar

image_2651SHLOMO PORAT
Il vincitore del premio Wolgin di quest’anno come miglior film, “Ajami”, è stato salutato come un “City of God” israeliano, un capolavoro del cinéma-vérité (episodi e personaggi interconnessi). Dopo averlo visto a settembre alla Cinematheque, devo dire che non sono stato colpito da nessuna di queste osservazioni. Tuttavia sono stato preso dalla descrizione della cultura israelo-araba. Sono rimasto affascinato dalla luce che getta su una parte della società su cui sono vergognosamente disinformato.
Diviso in cinque capitoli, i primi quattro dei quali concentrati ciascuno (più o meno) su un personaggio diverso, il film è una specie di mosaico di persone nel quartiere Ajami di Giaffa e intorno ad esso. Nasri (Fouad Habash) e Omar (Shahir Kabaha) sono due fratelli musulmani di una famiglia coinvolta in una violenta faida con un clan beduino. Un loro zio ha sparato a un membro dell’altra famiglia che stava tentando di compiere una rapina a mano armata in un caffè. Per vendetta lo zio è stato ucciso, il caffè incendiato e un vicino dei ragazzi ucciso, dopo essere stato scambiato per Omar. Abu-Lias (Youssef Sahwani), un rispettato membro della comunità e proprietario del ristorante dove lavora Omar, entra in scena per cercare di mediare la pace fra le due famiglie. Abu-Lias è un cristiano, relativamente benestante, e si atteggia a Padrino, assistendo impiegati e membri della comunità in difficoltà. La scena in cui le due famiglie si incontrano per negoziare una pace è un quadretto impagabile, una scena assurda magnificamente descritta.
Anche Malek (Ibrahim Frege), un adolescente palestinese che entra di nascosto evitando il checkpoint e lavora illegalmente, è impiegato al ristorante di Abu Lias. La madre di Malek è in ospedale, avendo bisogno di un costoso trapianto di midollo, altra cosa per cui Abu-Lias sta cercando di aiutare. L’ultimo dei principali personaggi arabi è Binj, un cuoco del ristorante. Binj ha una ragazza ebrea, e sta cercando un posto nella società (ebraica) di Tel Aviv.
Tutti questi personaggi sono interessanti e sembrano rappresentare, almeno parzialmente, una specie di spaccato delle diverse comunità arabe in Israele. Tutti sono interpretati da attori non professionisti che hanno studiato i personaggi a lungo con i registi Yaron Shani e Scandar Copti. Molti personaggi e avvenimenti sono basati sulla vita reale, una cosa ritenuta particolarmente provocante nel caso di Binj, che è interpretato dal co-regista Copti. Non voglio indagare troppo su quanto di Copti ci sia in Binj, ma è difficile ignorare la sensazione che il tentativo di Binj di praticare la società israeliana probabilmente riecheggia la circostanza che vede un regista israelo-arabo lavorare con israelo-ebrei nell’industria cinematografica.
Considerando la varietà di personaggi arabi, è sorprendente che il film abbia un solo importante personaggio ebreo, un poliziotto chiamato Dando (Eran Naim). Non è che ne servissero di più: il capitolo di Dando è il meno interessante di tutti. Ma la storia di Dando non sembra per nulla rappresentativa o rilevante come quelle di Omar, Malek e Binj. È descritto in modo piuttosto crudo, con una intera storia che non sembra appartenere al film (il fratello di Dando, un soldato, scompare mentre sta tornando a casa dalla base, e la sua famiglia lo sta cercando: ho trovato vagamente offensivo che un argomento drammatico come un soldato disperso sia usato qui con effetto così irrilevante). Tutto il personaggio di Dando mi ha colpito come buttato lì, creato decisamente con meno cura di tutti gli altri personaggi principali. Penso che parlare meno di lui avrebbe giovato al film, in quanto la sua storia è molto meno coinvolgente.
A livello formale, il film è interessante sotto un paio di aspetti, Innanzitutto nella struttura. Inizialmente sembra semplice nella sua cronologia, ma poi salta nel tempo, tenendo il pubblico in sospeso a domandarsi quale pezzo del mosaico andrà al suo posto (in effetti vanno al loro posto più di quanto avessi pensato). È una versione macro dell’effetto che fanno diverse sequenze del film: ti ninnano in un atmosfera relativamente pacata, un assaggio di casuale socializzazione in una fetta di vita, per poi esplodere in un orrendo atto di violenza.
Gli scoppi di violenza sono generalmente improvvisi, brevi, rumorosi, e profondamente molesti: un approccio sano e morale. Tuttavia io non credo (come altri hanno rilevato) che il film sia incentrato sulla violenza. L’ultimo atto di violenza del film sembra forzato e, mi spiace dirlo, comodo. È anche svelato in modo tale che distrae più che rivelare. Qualunque posizione il film intendesse prendere sulla violenza, secondo me viene notevolmente diminuita dal finale. Questo, tuttavia, come altri elementi fastidiosi del film, potrebbe certamente sembrare meno stridente ad una seconda visione, senza che le sorprese della trama interferiscano con le sorprese viscerali della scena.
L’altro aspetto della forma del film che mi ha colpito è la fotografia (di Boaz Yaacov). Benché sia stata evidentemente influenzata dai moderni tipi estetici del moderno cinéma-vérité europeo, l’aspetto del film non è cupo e opprimente come molti di quei film (che spesso trasmettono un nichilismo diffuso che personalmente non approvo). Non ci sono agitate inquadrature con camera a mano, né quelle altre inquadrature troppo a lungo statiche che si usano per convincere il pubblico che il film è meditativo e serio. Non è esagerato nel suo registro visivo. C’è una sorprendente quantità di colore, anche se è soffocato dalla generale poca illuminazione delle scene. È un film di bell’aspetto, che non rinuncia alla bellezza cinematografica a favore del “nudo realismo”.
Per finire, questo film non ha esattamente funzionato per me su un livello narrativo o strutturale. Sono tuttavia estremamente grato per la società e la cultura che mi ha mostrato. Gli elementi relativamente banali sono quelli che mi hanno colpito di più: i dialoghi più che gli spari. La distruttività di coltelli e proiettili non mi era nuova, né il film me l’ha resa nuova. Sono stato colpito più dai pezzetti di ebraico che compaiono casualmente nella conversazione, i colloquialismi che sono così insiti nelle persone da essere onnipresenti in questi dialoghi arabi. Sono rimasto affascinato anche dal conflitto di un arabo-israeliano che cerca di vivere in due diverse cerchie culturali. Le liti e le manifestazioni d’affetto.
Suppongo di aver perso molti dei punti che Shani e Copti cercavano di trasmettere, ma sono soddisfatto di quello che ho ricevuto da questo film. Forse una seconda visione più in là mi permetterà di fruire pienamente del film secondo le intenzioni degli autori.
(Da: midnighteast.com, 3.09.09)

AVIRAMA GOLAN
Prima di tutto bisognerebbe dire che il film “Ajami” è un capolavoro secondo qualunque criterio, e ha giustamente vinto i premi Wolgin e Ophir come miglior film. E’ sorprendente, emozionante, affascinante, scioccante e pieno di umanità; scritto e girato con saggezza; diretto e recitato meticolosamente e con forza; e accompagnato da un’eccellente colonna sonora.
Ma c’è un altro risultato sorprendente, che non è evidente: il film che rappresenterà Israele nel mondo (agli Oscar) è arabo ed è stato diretto e scritto da due israeliani, un arabo e un ebreo. Viene voglia di gridare di gioia.
Naturalmente si sono già levate delle voci che denunciano “i soliti cuori teneri di Tel Aviv” che hanno votato il film o altre, opposte, che criticano l’arabo Scandar Copti per aver osato collaborare alla stesura e alla regia con l’ebreo Yaron Shani. Alcuni certamente descriveranno questa coppia di registi come un’ esibizione; altri li spingeranno a scoprirsi politicamente, a seconda delle preferenze politiche di chi farà tali pressioni. Speriamo davvero che gli spettatori di tutto il mondo ignorino tutte queste inutili manipolazioni e votino per il film con il loro portafoglio!
Dovrebbero farlo, perché “Ajami”, pur essendo un thriller sofisticato, riesce anche a contenere, in quel modo conciso caratteristico della grande arte, non “soltanto” la complessità della vita per le strade di Giaffa, degli arabi fra di loro e con gli arabi di altre provenienze; ma anche la complessità dei grevi incontri tra ebrei e arabi, musulmani e cristiani, e tra arabi d’Israele e i loro parenti nei territori. Il tutto mostrato in chiave multidimensionale
“Ajami” è un film coraggioso. Non è né ossequioso né adulatorio, né arrogante né cinico. È spietato e doloroso, ma nello stesso tempo, e forse proprio per questo, è umano e pieno di compassione: per cui lo spettatore si commuove allo stesso modo per la madre dell’eroe arabo di Giaffa, per il ragazzo “residente illegale” di Nablus che finisce nei guai a causa di sua madre morente, e per il duro poliziotto ebreo che sembra provar piacere nell’odiare gli arabi.
Attenzione: il film non è apolitico. Anzi, è molto politico; ma tratta di un problema molto più profondo che non quello di “chi ha ragione, gli ebrei o gli arabi”. La sua forza politica è nel rivelare arditamente– mai visto prima in un film israeliano, e forse in nessuna altra forma artistica israeliana – il fango in cui tutta la società israeliana sta affondando: ebrei e arabi allo stesso modo; ma gli arabi di più, e gli arabi poveri più di tutti. Il conflitto israelo-palestinese scorre, come nella realtà, attraverso la trama; ma i registi non lo usano nemmeno per un attimo nel solito modo noioso.
Che folle dissonanza. Da un lato Israele sarà rappresentato nel mondo da un film ebraico-arabo di grande qualità, con dialoghi arabi e musica araba, creati a Giaffa solo 62 anni dopo che l’elite araba di quella città se ne andò, seguita poi dalla fuga/espulsione di molti altri, lasciando la città orba del suo splendore. Eppure il film è stato scelto in un periodo in cui uno spirito malefico va rafforzandosi, portando sulle proprie ali il governo Netanyahu-Lieberman nel cui nome i cittadini arabi di Israele vengono spinti da parte in un angolo buio. E come ignorando completamente questo spirito, librandosi al di sopra di esso e perfino avendone compassione, il film si presenta semplicemente come una storia israeliana, che si svolge nella vera realtà israeliana, e parla un arabo che esiste in un posto solo: in Israele. Perché è un arabo mescolato a espressioni ebraiche. Questo film è una tragedia senza speranza e deprimente, ma nello stesso tempo una commedia umana in cui la gente si fonde insieme, come le parole.
Questa è la realtà del film, ed è vera realtà. Non forsennata istigazione che rappresenta gli arabi come una quinta colonna. Piuttosto, arabi nati qui prima e dopo la costituzione di Israele, che sono parte di esso e che non se ne andranno. Sono in effetti palestinesi, amareggiati per l’esistenza dello stato di Israele, ma sono israeliani e cittadini dello stato, come lo sono gli ebrei.
Ora si può solo sperare che questi due talentuosi registi ottengano il plauso internazionale, perché lo meritano. Forse, nello spirito del film, possiamo sognare che la società israeliana possa un giorno liberarsi della paranoia etnocratica che consuma le basi della sua esistenza, riconoscere la grande ricchezza nella mescolanza delle culture ebraica e araba, e anziché violenza e odio, produca creatività.
(Da: Ha’aretz, 30.09.09)

Per vedere trailer (in ebraico):