Al cuore del dibattito pre-elettorale

A rischio lo stato ebraico, fra prospettiva «bi-nazionale» ed eterno rifiuto arabo.

Di A.B. Yehoshua, D. Eydar

image_3628IL CUORE DEL DIBATTITO FRA «FALCHI» E«COLOMBE»
Di Abraham B. Yehoshua
Con le elezioni ormai dietro l’angolo, questo è il momento giusto per definire il cuore dello scontro fra “falchi” e “colombe” in Israele. Il punto focale del dibattito, oggi, non è tanto sul processo di pace. Anche chi è disposto ad accettare la formula elaborata a Ginevra nel 2006 dubita che palestinesi e mondo arabo intendano davvero accontentarsi di uno stato smilitarizzato entro i confini del 1967 con una presenza giuridicamente riconosciuta a Gerusalemme e senza il ritorno dei profughi all’interno di Israele. La grande maggioranza di coloro che appartengono al campo delle “colombe”, che nelle prossime elezioni sarà rappresentato dai partiti della sinistra e del centro, non è composta da ingenui e illusi. E non sono nemmeno convinti che le ostilità cesseranno quand’anche venissero firmati accordi di pace e Israele si ritirasse da Giudea e Samaria (Cisgiordania). D’altra parte il campo delle colombe, in tutte le sue sfumature e varianti, deve battersi per un obiettivo di base: arrestare il pericoloso processo di graduale trasformazione dello stato di Israele in uno stato bi-nazionale, un’eventualità disastrosa per entrambe le nazioni. Questo è il cuore del dibattito tra i due campi. Di fronte alla costante e mal dissimulata crescita degli insediamenti, al mancato sgombero di avamposti illegali e soprattutto alla costruzione senza freni in zone che non hanno mai fatto parte geograficamente e storicamente della città di Gerusalemme, di fronte a un processo miope sul piano storico e demografico che negli ultimi anni ha continuato a cucire fra loro due nazioni così diverse, alle prossime elezioni bisogna presentarsi con una posizione inequivocabile che dica: “stop”. È infatti molto probabile che i palestinesi, la cui testardaggine nel rifiutarsi di negoziare con gli israeliani appare incomprensibile, intendano effettivamente trascinare Israele nella trappola di uno stato bi-nazionale, che pensano possa diventare col tempo un unico stato palestinese esteso dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo. Gli ebrei israeliani osservanti non hanno un vero motivo per temere lo stato bi-nazionale. L’identità religiosa ebraica è un’identità “errante”, dotata di una lunga esperienza storica di resistenza perdurata per secoli all’interno di tante civiltà, nazioni e religioni diverse. Di certo costoro non sono turbati più di tanto dalla prospettiva di uno stato bi-nazionale, specie se sono le Forze di Difesa israeliane a difenderlo. Il principale dibattito è dunque fra le colombe e i leader laici della destra. Coloro che si ispirano all’ideologia di Ze’ev Jabotinsky hanno dimenticato che quando questi, negli anni trenta, diceva “il Giordano ha due sponde”, c’erano nel mondo 18 milioni di ebrei, molti dei quali avevano un disperato bisogno di una patria, mentre il numero di arabi palestinesi era meno di un milione. Per questo Jabotinsky poteva immaginare uno stato con una netta maggioranza ebraica nel quale vivesse una minoranza araba con pieni diritti. Ma oggi ci troviamo sull’orlo di uno stato bi-nazionale e molte persone a conoscenza di ciò che sta accadendo sul terreno sostengono che sia ormai impossibile fermare questo processo. Quand’anche costoro avessero qualche ragione, è ancora possibile rimediare con una soluzione a cantoni e accordi su una duplice cittadinanza. Dunque il nocciolo del dibattito tra falchi e colombe per le imminenti elezioni non sono le questioni della pace, dell’isolamento internazionale o della separazione fra religione e stato. Quel che bisogna chiedere è la cessazione immediata dell’opera di ampliamento degli insediamenti. Il campo delle colombe, in tutte le sue componenti, deve porla come condizione imprescindibile di qualunque eventuale partecipazione al terzo governo Netanyahu.
(Da: YnetNews, 1.1.13, la Stampa, 29.12.12)

MA CHI SE LO RICORDA PIÙ IL “NUOVO MEDIO ORIENTE” DI PERES?
Di Dror Eydar
Dopo essere stato per anni al centro di varie tempeste politiche, il presidente israeliano Shimon Peres è entrato nelle grazie del pubblico e si è guadagnato la sua ammirazione nel ruolo di presidente. Il che va benissimo, ma l’ammirazione non giustifica i suoi colossali errori. Peres divenne primo ministro subito dopo l’assassinio di Yitzhak Rabin (novembre 1995). Nelle settimane successive trasferì all’Autorità Palestinese una dopo l’altra le città palestinesi. Dopodiché iniziarono ad esplodere gli autobus israeliani. A decine morivano, gli israeliani, in quegli attentati. Peres dava loro le città e loro ci facevano saltare per aria. Circa un anno prima, Benny Begin (del Likud) aveva fornito informazioni affidabili circa le vere intenzioni di Yasser Arafat, ma Peres lo aveva congedato. A Camp David (luglio 2000) Ehud Barak offrì fin troppo e Arafat per tutta risposta scatenò una pioggia di fuoco e sangue su Israele. Non aveva mai avuto veramente l’intenzione di porre fine al conflitto. Benny Begin aveva avuto ragione. Ma questa non sembrò una prova sufficiente per la “banda degli artefici di Oslo” e i loro ciechi seguaci nel mass-media. Peres unì le sue forze a quelle di Ariel Sharon, che causò la rottura del Likud ingannando i suoi elettori. I due insieme demolirono ventuno insediamenti nella striscia di Gaza e quattro in Samaria (Cisgiordania settentrionale). Promisero che Gaza si sarebbe trasformata in una mini-Singapore mediorientale. Invece ci siamo ritrovati con un incrocio fra Arabia Saudita e Iran, e con migliaia di razzi lanciati sulle nostre teste. Riesaminiamo le promesse di Peres e dei suoi saggi: quanto correttamente avessero previsto il corso degli eventi, a cominciare dagli accordi di Oslo fino al disimpegno dalla striscia di Gaza, e come zittivano quelli che protestavano sotto ai loro uffici. E non abbiamo nemmeno citato la lungimirante opposizione di Peres al bombardamento del reattore iracheno nel 1981… Sicché ora Peres “conosce Abu Mazen” ed è “consapevole della realtà dei fatti”. E Abu Mazen, dal canto suo, capisce che bisogna arrivare a un compromesso sul “diritto al ritorno” e che lui “non tornerà a Safed”. Ecco un bel test di realismo. Due giorni dopo quell’intervista al Canale Due, Abu Mazen si è affrettato a dichiarare, sul quotidiano dell’Autorità Palestinese “Al-Hayat al-Jadida” che la sua posizione su Safed era personale e che egli non aveva alcuna intenzione di cedere sul “diritto al ritorno”. “Nessuno può cedere sul diritto al ritorno”, ha dichiarato. Peres sa bene che Ehud Olmert fece ad Abu Mazen offerte sconsiderate e che la risposta di Abu Mazen è stata quella di voltargli le spalle e scappare. Tzipi Livni si è precipitata ad affermare che Peres “ha detto la verità alla gente”. La verità è che vent’anni sono un tempo abbastanza lungo per capire che nessun leader palestinese ha un mandato per firmare una conclusione definitiva del conflitto. Bisogna avere un po’ di familiarità con la cultura palestinese, anche all’interno di Fatah, per capire che non hanno nessuna intenzione di venire a patti con la nostra esistenza. Sono questioni ben illustrate con dovizia di documentazione nel sito “Palestinian Media Watch” di Itamar Marcus. Raccomando vivamente ai consiglieri di Peres di dargli un’occhiata. In quello stesso giornale palestinese, il portavoce di Abu Mazen, Nabil Abu Rudeina, ha dichiarato che “un’intervista alla televisione non è il negoziato, e lo scopo di quell’intervista di Abu Mazen alla televisione israeliana era quello di influenzare l’opinione pubblica israeliana”. Proprio come le parole di Peres a tre settimane dalle elezioni. Come se non fossero passati vent’anni, lui crede ancora nel Nuovo Medio Oriente. Siamo tutti noi altri che non ce lo ricordiamo nemmeno più.
(Da: Israel HaYom, 31.12.12)

Nelle foto in alto: Abraham B. Yehoshua e Dror Eydar, gli autori di questi articoli