Alla ricerca della pace, unilateralmente

La decisione del governo israeliano marca un cambiamento di paradigma rispetto a Oslo: punta nella medesima direzione, ma lungo un percorso sostanzialmente diverso

M. Paganoni per NES n. 6, anno 16 - giugno 2004

image_257“Entro la fine del 2005 non resterà nessun israeliano a Gaza”. Così parlò il primo ministro israeliano Ariel Sharon, dopo la sudata approvazione da parte del suo governo del piano per il disimpegno unilaterale dalla striscia di Gaza e da parte della Cisgiordania settentrionale. Approvazione che è costata l’allontanamento di due ministri di Unione Nazionale, le dimissioni di altri due del Partito Nazionale Religioso e dunque, allo stato dei fatti, la perdita della maggioranza alla Knesset.
“La versione riveduta del piano – ha scritto Ha’aretz (8.06), giornale solitamente assai critico verso il governo – merita d’essere sostenuta nonostante i giri di parole che vi sono stati inseriti”. Dopo estenuanti trattative, infatti, i ministri più scettici hanno ottenuto una clausola secondo cui lo sgombero dei 21 insediamenti di Gaza e dei quattro in Cisgiordania sarà preceduto da un altro dibattito e da un ulteriore voto “che dovrà tener conto delle circostanze del momento per decidere se e quali insediamenti sgomberare”.
Ciò nondimeno, la decisione presa a Gerusalemme il 6 giugno scorso assume le tinte del fatto storico. Esattamente 37 anni dopo la guerra dei sei giorni, Israele per la prima volta decide di rimuovere intere comunità di cittadini israeliani da una parte della Terra d’Israele (ex Palestina mandataria). “La decisione – continua Ha’aretz – contiene un impegno esplicito e importante, dal quale non sarà possibile recedere: nessun futuro governo israeliano potrà facilmente ignorare un piano di ritiro che si è guadagnato vasto sostegno nell’opinione pubblica israeliana, compresi molti settori del Likud, e che gode del pieno appoggio degli Stati Uniti”.
Il piano si preoccupa di chiarire che “il disimpegno non pregiudica gli accordi firmati fra israeliani e palestinesi, che restano in vigore”. E aggiunge esplicitamente che “Israele aspira a raggiungere una soluzione concordata del conflitto sulla base del principio due stati per due popoli, lo stato di Israele per il popolo ebraico e uno stato palestinese per il popolo palestinese”. In questo senso, il piano di disimpegno sembra porsi in continuità con il processo di Olso, anzi rafforzandolo laddove i documenti di Oslo non parlavano mai esplicitamente di uno stato palestinese accanto a Israele (pur muovendo chiaramente in quella direzione), e rimandavano la questione degli insediamenti al negoziato finale.
“Ma in realtà – ha scritto il Jerusalem Post (8.06) – la decisione del governo israeliano marca un cambiamento di paradigma rispetto a Oslo: punta nella medesima direzione, ma lungo un percorso sostanzialmente diverso”. Oggi, infatti, il governo israeliano afferma esplicitamente che il piano è unilaterale: “Lo stallo nella situazione attuale è deleterio e dunque Israele, per rompere lo stallo, deve avviare iniziative non dipendenti dalla cooperazione da parte palestinese”. Come Sharon ebbe a dire già nel discorso di Herzliya del 18 dicembre 2003, dove aveva preannunciato questa politica, “Israele vorrebbe condurre negoziati diretti, ma non ha nessuna intenzione di essere tenuto in ostaggio dai palestinesi: non aspetteremo all’infinito che i palestinesi si decidano a fare la pace sul serio”.
“In pratica – commenta il Jerusalem Post – è come se il piano di disimpegno cercasse di arrivare allo stesso risultato di Oslo, ma contro la volontà dei palestinesi; è come se Sharon fosse diventato un fautore dell’indipendenza palestinese più risoluto dello stesso Arafat”.
Il che comporta un corollario assai rilevante. A differenza di Oslo e della Road Map, il piano di disimpegno non si basa sull’assunto che il futuro stato palestinese sia uno stato in pace con Israele. Oslo si fondava sul presupposto che tutto il mondo arabo e islamico fosse pronto e disposto a fare la pace con Israele, per cui tutto ciò che restava da fare per Israele era cedere territori e concordare confini. Viceversa, la premessa su cui si basa il piano di disimpegno è che “attualmente non esiste un interlocutore palestinese affidabile con il quale sia possibile fare passi avanti in un processo di pace bilaterale”. E dunque una certa calma potrà essere garantita solo fissando linee meglio difendibili e cercando di migliorare la posizione diplomatica di Israele, almeno finché non si realizzeranno cambiamenti sostanziali nella società e nella politica del mondo arabo.
Ma c’è un’altra novità sostanziale, che sta all’origine del piano di disimpegno sebbene nel testo non venga formulata espressamente. Riguarda il rilevante mutamento che si è determinato nella percezione della minaccia principale all’esistenza dello stato ebraico. Per decenni, benché Israele fosse disposto a barattare territori conquistati in cambio di trattati di pace con i paesi arabi, l’idea di creare uno stato palestinese (il ventiduesimo stato arabo, a ridosso del cuore stesso di Israele, possibile sentina di terrorismo virtualmente alleata di qualunque regime estremista) era tabù. Col tempo, il potenziale pericolo rappresentato dall’eventuale stato palestinese è stato via via messo in ombra da una minaccia di tutt’altra natura: la minaccia demografica, vale a dire la prospettiva sempre più evidente che presto gli ebrei possano tornare ad essere minoranza in quella lingua di terra stretta tra il Mar Mediterraneo e il fiume Giordano. Forse è a questo che si riferisce, il piano, quando cita tra i propri obiettivi quello di “creare una situazione migliore per la sicurezza, perlomeno nel lungo periodo”.