All’indomani di Sharm

Sharm 2005 non è stato Aqaba 2003: oggi sopra Abu Mazen non c'è più Arafat.

image_572Dopo tanti incontri al massimo livello fra Israele e Autorità Palestinese che hanno fatto fiasco – Cairo, Wye, Camp David, Aqaba – è assurdo evocare ancora una volta il “vento della storia” in questo genere di occasioni.
E in effetti il summit di martedì a Sharm e-Sheikh non suscita gli impetuosi sentimenti dei momenti cruciali. Dopo i discorsi ufficiali e quel poco che è trapelato dagli incontri riservati, la reazione istintiva non è quella di esclamare “Sì, abbiamo voltato pagina”, quanto piuttosto “Eccoci di nuovo, speriamo che questa sia la volta buona”.
Sharm 2005 non è stato Aqaba 2003. Il summit Sharon-Abu Mazen ad Aqaba di un anno mezzo fa varò la Road Map, e lo fece con discorsi del primo ministro israeliano e dell’allora primo ministro palestinese venati di pathos ed emozione. Abu Mazen riconobbe le sofferenze ebraiche del passato, Sharon fece lo stesso con i palestinesi rivolgendosi direttamente a loro. Altri tempi. Questa volta, a parte uno svolazzo retorico di Sharon quando ha fatto appello ai palestinesi perché trovino il coraggio di rinunciare a una parte dei loro sogni come hanno già fatto gli israeliani, i discorsi dei due leader sono stati piuttosto secchi e asciutti. Discorsi pragmatici, non poetici. Sharon si è impegnato a scarcerare “centinaia” di detenuti e a trasferire all’Autorità Palestinese il controllo su città palestinesi. Con approccio pragmatico e ragionevole, Abu Mazen ha detto che ci sono molti temi di cui vorrebbe parlare con Sharon (il “muro”, Gerusalemme, i profughi) ma che è meglio lasciarli per un’altra occasione. Più che i rintocchi della storia, Abu Mazen martedì sentiva il rimbombo dei passi dei suoi estremisti: Hamas e Jihad Islamica. E sono rimbombi vicini e forti.
Quasi a sottolineare il punto, poco dopo i discorsi ufficiali il ministro degli esteri dell’Autorità Palestinese Nabil Shaath, rispondendo a un giornalista che gli chiedeva se Hamas rispetterà il cessate il fuoco, ha detto: “Ne informeremo i nostri fratelli palestinesi e ci adopereremo per consolidare l’impegno in questo senso”. Non esattamente il tipo di dichiarazioni che suscitano entusiasmo.
Tuttavia, alla luce delle amare esperienze del recente passato, l’entusiasmo circa questi summit – e, per la verità, circa il conflitto in generale – non è il problema principale da risolvere.
Due anni fa, ad Aqaba, Abu Mazen potè dare sfogo alla sua vena poetica rivolgendosi agli ebrei e parlando delle loro sofferenze, perché sapeva, come sapeva tutto il mondo, che ciò che contava davvero non era quello che lui diceva, bensì quello che Yasser Arafat faceva. E Arafat non aveva alcuna intenzione di fare nulla.
Questa volta Abu Mazen è il leader sovrano. Questa volta non c’è nessuno sopra di lui che si dia attivamente da fare per ribaltare le sue parole o i suoi progetti. Questa è la vera differenza: motivo di speranza, non di entusiasmo. Gli ostacoli che si parano sulla strada di Abu Mazen sono molto alti sia per l’una che per l’altro. Anche dopo Sharm e-Sheikh.

(Herb Keinon su Jerusalem Post, 9.02.05)

Nella foto in alto: Membri delle Brigate Al Aqsa (Fatah) a Jenin puntano le armi contro l’immagini di Ariel Sharon al summit dell’8 febbraio a Sharm el-Sheikh.