Amos Oz

Del diritto di restare penisole

image_351Del diritto di restare penisole.
A proposito di “Contro il fanatismo”, di Amos Oz, Feltrinelli 2004.

Il piccolo pamphlet di Amos Oz Contro il fanatismo pubblicato da Feltrinelli all’inizio dell’estate è un gioiello più che un libro, un’opera di poche pagine (78), che non dovrebbe mancare in nessuna biblioteca e in nessuno scaffale di casa. Dall’inizio della II Intifada quattro anni fa, è difficile sentire nella baraonda generale delle parole sensate su quanto succede in Medio Oriente, parole non gridate, come quelle di Oz. Ancora una volta questo scrittore straordinario che confessa di raccontare tutto da un punto di vista «ebraico-israeliano» (p. 23), unendo in questo modo l’identità israeliana a quella diasporica, ci sorprende con la sua capacità di creare una prosa fluida e semplice, scorrevole e incisiva a un tempo. Anche il suo messaggio è semplice: il conflitto israelo-palestinese per lui «non è una storia nero su bianco. Niente buoni da una parte e niente cattivi dall’altra. Non è un film western, e nemmeno un western capovolto» (p. 18). Già da queste parole, soprattutto tenendo conto di quanto Amos Oz da bambino amasse i film western o sognasse di diventare un eroe con la pistola in pugno, egli ci porta lontano dal romanticismo e da una visione manichea ed ideologica della situazione. «In Europa», scrive, «molto spesso, davvero molto spesso, incontro persone impazienti, sempre ansiose di sapere per ogni storia, per ogni scontro, chi siano i “buoni” e chi i “cattivi”, chi va appoggiato e chi va preso di mira con la protesta… E invece la mia percezione, la mia esperienza formativa, mi dicono che nel conflitto fra ebrei israeliani e arabi palestinesi non ci sono “buoni” e “cattivi”. C’è una tragedia: il contrasto fra un diritto e l’altro» (p. 18). In queste lezioni tenute a Tübingen lo scrittore israeliano si rivolge ai giovani e propone loro di riflettere sul significato del compromesso. In Europa è di moda essere “filo-palestinese”, “anti-israeliano”, per quanto queste espressioni non abbiano significato alcuno e siano concetti lontani dalla realtà, che non la spiegano, ma al contrario la mitizzano, la strumentalizzano a fini ideologici. La parola “compromesso” rompe questo schermo che ci separa dalla realtà, ci costringe a confrontarci con essa. Nelle parole di Amos Oz: «questa parola gode di una pessima reputazione nei circoli idealistici d’Europa, in particolare fra i giovani. Il compromesso è considerato come una mancanza d’integrità, di dirittura morale, di consistenza, di onestà. Il compromesso puzza, è disonesto. Non nel mio vocabolario. Nel mio mondo, la parola compromesso è sinonimo di vita. È dove c’è vita ci sono compromesso. Il contrario di compromesso non è integrità e nemmeno idealismo e nemmeno determinazione o devozione. Il contrario di compromesso è fanatismo, morte» (pp. 25-26). Il messaggio è sociale, ma anche politico: «Questa è una battaglia fra fanatici convinti che il fine, qualunque sia questo fine, giustifichi i mezzi, e noi altri, convinti invece che la vita sia un fine, non un mezzo. È una battaglia fra coloro per i quali la giustizia, in qualunque modo essi intendano questa parola, è più importante della vita, e noi che pensiamo che la vita venga prima di tantissimi altri valori, convinzioni o fedi» (p. 33). «I fanatici sono quasi sempre degli incorreggibili romantici, preferiscono il sentimento al pensiero, e sono affascinati dalla loro stessa morte. Disprezzano questo mondo e lo barattano volentieri in cambio del “cielo”» (pp. 41-42). Con questa timida incursione nel campo della storia delle idee, che sembra riecheggiare il bellissimo libro di Isaiah Berlin, Le radici del romanticismo (Adelphi 2001; è stato tradotto anche in ebraico, Am Oved 2001), la voce di Amos Oz ha il potere di ridare speranza, proprio per il fatto che viene da un posto dove avere speranza sembra impossibile. Con una immagine efficace, che vorrei eleggere a motto, egli riporta il famoso verso del poeta inglese John Donne, nessun uomo è un isola, ma dice di voler aggiungere: «siamo tutti penisole, per metà attaccate alla terraferma e per metà di fronte all’oceano, per metà legati alla famiglia e agli amici e alla cultura e alla tradizione e al paese e alla nazione e al sesso e alla lingua e a molte altre cose. Mentre l’altra metà chiede di essere lasciata sola, di fronte all’oceano. Credo che ci si debba lasciare il diritto di restare penisole. Ogni sistema sociale e politico che trasforma noi in un’isola darwiniana e il resto del mondo in un nemico o un rivale, è un mostro» (p. 54).