Ampliare lo sguardo

L’approccio che emerge in Medio Oriente ha un orientamento decisamente regionale

di Herb Keinon

image_2493Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu deve ancora svelare i risultati del suo approfondito “riesame politico”, e l’amministrazione Usa sta ancora lavorando al suo piano globale sul Medio Oriente. Ma una cosa che già emerge è che nei prossimi mesi e anni si porrà molta più enfasi su una pace regionale e complessiva anziché soltanto su una “ristretta” pace israelo-palestinese. E il motivo è chiaro: una pace israelo-palestinese, nel pensiero attuale, può sbocciare solo nel quadro di una più ampia pace fra Israele e mondo islamico.
Da quando nel 1993 il processo di Oslo, centrato quasi esclusivamente sulla questione palestinese, usurpò il processo di Madrid, che era più regionale e focalizzato sulle questioni multilaterali, la modalità automatica degli sforzi diplomatici nella regione è stata quella di rompere innanzitutto il nocciolo israelo-palestinese per poi affrontare il più ampio conflitto arabo-israeliano.
L’ex presidente americano George W. Bush cercò di coinvolgere maggiormente il mondo arabo invitandolo alla conferenza di Annapolis del 2007, ma sotto ogni punto di vista pratico quel coinvolgimento si fermò ad Annapolis e alle successive conferenze dei paesi donatori di aiuti ai palestinesi.
Anche la tanto decantata iniziativa di pace araba segue lo stesso schema: in base a quel piano, Israele deve ritirarsi completamente sulle linee pre-’67 e poi vi sarà una normalizzazione dei rapporti col mondo arabo. Prima il ritiro, poi la normalizzazione.
Il pensiero che tende ora ad emergere è che invece i due processi debbano andare in parallelo: se Israele deve fare ulteriori concessioni, allora deve anche iniziare a godere dei frutti della sua integrazione nella regione mediorientale.
A questo approccio globale alludeva Netanyahu con le sue dichiarazioni di lunedì a Sharm e-Sheikh, dopo l’incontro con il presidente egiziano Hosni Mubarak, quando ha detto che il popolo ebraico “vuole rapporti di concordia con il mondo musulmano”. Israele, ha detto, “aspira alla pace coi vicini palestinesi e con tutte le nazioni arabe: viviamo tutti in questa regione e siamo tutti figli di Abramo”. Non si parla più soltanto di pace per i figli degli israeliani e dei palestinesi, ma piuttosto di una nuova concordia fra il popolo ebraico e l’intero mondo musulmano.
Le dichiarazioni di Netanyahu corrispondono all’accento posto dal re di Giordania Abdullah II sulla componente regionale. In una sua intervista comparsa lunedì sul Times di Londra il monarca hashemita ha detto: “Siamo stufi del processo, ora parliamo di negoziati diretti. È un punto centrale: affrontare la questione in un contesto regionale. Può essere attraverso la proposta di pace araba. Gli americani la vedono come noi e penso anche gli europei. Ciò di cui stiamo parlando non è israeliani e palestinesi seduti a un tavolo, ma israeliani a un tavolo con i palestinesi, israeliani a un tavolo con i siriani, israeliani a un tavolo con i libanesi. E con gli arabi e il mondo islamico pronti nello stesso tempo ad aprire negoziati diretti con Israele. Questo – continua il re di Giordania, illustrando la nuova logica – è il lavoro che deve essere fatto nei prossimi due mesi, per una risposta a livello regionale. Non si tratta di una soluzione a due stati, è una soluzione a 57 stati. Questo è il punto dolente che agita il pubblico e i politici israeliani. Il futuro non riguarda il fiume Giordano o le alture del Golan o il Sinai; il futuro riguarda il Marocco sull’Atlantico fino all’Indonesia sul Pacifico. Penso che questa sia la posta in gioco”.
Il congressista americano Robert Wexler, stretto alleato politico di Obama e ben sintonizzato col pensiero dell’amministrazione Usa, ha dato voce allo stesso approccio in un’intervista di domenica scorsa al Jerusalem Post: “I sauditi – ha detto Wexler – hanno avuto la vita facile, a Washington, ultimamente Sostengono d’aver già proposto l’iniziativa di pace araba. Io penso che molti israeliani abbiano qualcosa da ridire e da eccepire, sull’iniziativa di pace araba, e lo stesso vale per me e per noi in America. Ma è giunta l’ora di metterli alla prova”. Secondo Wexler, è tempo di dire al re saudita Abdullah: “Hai delineato uno schema sulla normalizzazione e su come arrivarci. Israele ha avanzato alcune idee su ciò che loro possono fare. Che cosa hai intenzione di fare, re Abdullah? Non aspetteremo di sentire cosa siete disposti a fare solo alla fine del processo: non è così che potrete costruire fiducia sui versanti israeliano e americano. Cosa hai intenzione di fare la prossima settimana, re Abdullah?”.
Tutto ciò riflette il nuovo approccio: dal momento che il processo centrato quasi esclusivamente sul binario israelo-palestinese non ha funzionato per più di quindici anni, è venuto il momento di ampliare lo sguardo. Non è una coincidenza che esponenti israeliani, giordani e americani stiano tutti facendo queste allusioni. Stanno tutti indicando la stessa meta. Quello che resta da capire esattamente è come arrivarci.

(Da: Jerusalem Post, 12.05.09)

Nella foto in alto: Herb Keinon, autore di questo articolo