Avanti, verso il passato

Estenuante lo spettacolo di un nazionalismo sciovinista che si atteggia a Martin Luther King

Da un articolo di Jonathan Spyer

image_2241Nelle ultime settimane diversi importanti esponenti di Fatah hanno avanzato l’idea che il loro movimento potrebbe abbandonare l’obiettivo della soluzione “due popoli-due stati” per tornare alla rivendicazione pre-1988: sostituire Israele con un singolo stato su tutta l’area tra il fiume Giordano e il mar Mediterraneo. Sostengono che la politica israeliana in Cisgiordania li costringerebbe a riconsiderare il loro impegno per la spartizione.
In realtà, quello che tempo fa veniva indicato come “uno stato secolare e democratico”, e che oggi si preferisce chiamare “la soluzione con un unico stato”, è rimasto l’obiettivo finale del moderno nazionalismo palestinese per la maggior parte della sua storia. Il fatto che oggi torni a galla non dovrebbe stupire nessuno: non è che la naturale conseguenza della rappresentazione che ha del conflitto il nazionalismo palestinese.
La soluzione “un unico stato” viene descritta dai suoi sostenitori come l’alternativa non-etnica e non-nazionalista al nazionalismo etnico che sarebbe rappresentato da Israele e dal sionismo. Israele – secondo Virginia Tilly, nota sostenitrice occidentale dell’ipotesi “stato unico” – si basa sulla “screditata idea che un gruppo etnico possa legittimamente rivendicare la sovranità permanente su uno stato territoriale”. Affermazione alquanto disonesta. Ahmed Qorei (Abu Ala) e Sari Nusseibeh, due eminenti personalità palestinesi che paiono sempre più inclini all’idea dello “stato unico”, sono anche importanti esponenti di un movimento (arabo-palestinese) dichiaratamente nazionalista, forgiato in un contesto culturale che si definisce arabo e musulmano. L’Autorità Palestinese, nella sua stessa bozza di costituzione, descrive il popolo palestinese in termini etnici e religiosi come “parte della nazione araba e musulmana” e dichiara che l’islam sarà la religione ufficiale dello stato palestinese, citando la sharia, la legge islamica, come sua “fonte principale del diritto”. Dunque, quali che siano le critiche che i sostenitori dello “stato unico” hanno da rivolgere a Israele, esse evidentemente non nascono da un’obiezione di principio al concetto di nazionalismo etnico.
E allora perché sostengono la natura “non nazionale”, da diritti civili, della rivendicazione di uno “stato unico” (che sarebbe invece con tutta evidenza uno stato arabo e musulmano)? Ci sono ragioni sia pragmatiche sia teoriche che spiegano l’ambiguità che sta alla radice dell’idea di uno “stato unico”.
Dal punto di vista pragmatico, una pretesa pubblica ed esplicita di negare i diritti nazionali della controparte risulterebbe controproducente e alienerebbe le simpatie di europei e americani, cioè di coloro che in gran parte saldano il conto-spese del progetto nazionale palestinese. Invece, riformulando il nazionalismo arabo-palestinese stile Fatah nel linguaggio dei movimenti per i diritti civili americani di cinquant’anni fa si spera di ottenere che almeno una parte degli osservatori non si accorga di come la soluzione “unico stato” comporti guarda caso la comparsa di un nuovo stato arabo e la scomparsa di uno stato ebraico legalmente costituito (l’unico esistente), e di conseguenza la fine del diritto all’autodeterminazione degli ebrei d’Israele. In altre parole la soluzione “stato unico”, a dispetto del suo presunto carattere non-etnico e non-nazionalista, si tradurrebbe nella piena realizzazione del programma massimalista del nazionalismo palestinese.
Questo tentativo di confondere le acque risulta abbastanza patetico. Sul piano concettuale, invece, il revival dell’idea “stato unico” è di maggior interesse. Mostra infatti fino a che punto il pensiero prevalente nel nazionalismo palestinese continui a considerare il conflitto con Israele come un conflitto fra un disegno di colonizzazione (quello sionista) e un movimento di liberazione (arabo-palestinese). Nonostante il breve periodo in cui sembrava avesse aderito all’impegno per la spartizione della terra fra due movimenti nazionali (la spartizione rifiutata dagli arabi nel 1947), in realtà il nazionalismo palestinese non ha mai avviato una vera rivoluzione teorica nel senso di una riformulazione del conflitto come un conflitto fra raggruppamenti nazionali rivali, entrambi fondamentalmente legittimi. Che era, naturalmente, la formulazione dei suoi interlocutori in campo israeliano: una concezione non ha trovato e non trova eco fra i palestinesi.
Fatah rimane profondamente convinta che il conflitto sia tra un’entità colonialista usurpatrice e un movimento di resistenza autoctono. Il che spiega la facilità con cui possa vagheggiare piani che implicano la cancellazione della collettività ebraico-israeliana. Sono scomparsi i rhodesiani in Africa australe, sono scomparsi i “pied-noir” in Algeria, e allora perché mai i loro equivalenti locali dovrebbero sperare in un futuro diverso? Secondo questa interpretazione, negare i diritti nazionali agli ebrei d’Israele, riducendoli a una minoranza dentro uno stato arabo-musulmano, non è affatto una negazione di diritti, giacché appartenere a una collettività storicamente illegittima non conferisce diritti.
Il problema, naturalmente, è che gli ebrei d’Israele non sono né rhodesiani né “pied-noir” e pertanto non hanno alcuna intenzione di recitare la parte che toccherebbe loro secondo il pensiero di Fatah.
Se Fatah tornasse effettivamente alla sua vecchia posizione militante di quarant’anni fa si trasformerebbe in una pallida imitazione dei suoi rivali islamisti, solo un po’ meno religiosa. La prognosi più probabile, tuttavia, è che non andrà così. Nella vita reale, i leader di Fatah temono Hamas molto più di Israele, e in ogni caso sono ormai profondamente invischiati con l’occidente in una relazione del tipo protettore-cliente. Così, quello che verosimilmente ci attende è un periodo caratterizzato più che altro da un’ondata di verbosità con grandi accuse e minacce generiche, prontamente rilanciate dagli amici di Fatah nell’accademia e nei mass-media occidentali.
Fatah ha più volte respinto la possibilità di spartire la terra, in definitiva perché la sua gente e la sua leadership non si sono mai del tutto liberate dalla camicia di forza concettuale dello “stato unico”. Oggi il movimento minaccia di arretrare ulteriormente sulla strada che aveva percorso nel corso degli anni ’90, fino a tornare al punto da cui era partito negli anni ’60. L’estenuante spettacolo di un nazionalismo intransigente e sciovinista che si atteggia a Martin Luther King non è che l’ultimo bizzarro frutto di questa impareggiabile miscela di tragedia e farsa che è il Medio Oriente.

(Da: Haartez, 29.08.08)

Nella foto in alto: La mappa della Palestina mandata in onda dalla Tv dell’Autorità Palestinese il 28 novembre 2007: lo stato di Israele è cancellato. Il giorno prima, ad Annapolis, Ehud Olmert e Abu Mazen avevano ribadito l’impegno verso “l’obiettivo di due stati, Israele e Palestina, che vivano fianco a fianco in pace e sicurezza”.