Barriere anti-terrorismo e pretesti anti-israeliani

Affermare che Israele ha diritto a difendersi e poi contestare radicalmente qualunque sua misura difensiva suona francamente ipocrita

M. Paganoni per NES n. 3, anno 16 - marzo 2004

image_58L’8 dicembre 2003, con 90 voti a favore, 8 contrari, 74 astenuti e 17 assenti, la decima Sessione Speciale d’Emergenza dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvava la risoluzione A/ES-10/L.16 con la quale chiedeva il parere consultivo della Corte Internazionale di Giustizia (con sede a L’Aja) sulle “conseguenze legali sollevate della costruzione da parte di Israele di un muro in territorio palestinese occupato”.
Dando per dimostrato che non si tratti di una barriera difensiva costruita su un territorio oggetto di negoziato, bensi’ di un muro costruito su territorio gia’ aggiudicato a una delle due parti, l’Onu manifestava la propria posizione pregiudiziale nella formulazione stessa del quesito e costringeva la Corte a sposare il punto di vista di una delle parti. Il pregiudizio era confermato dall’assenza del benche’ minimo riferimento al terrorismo anti-israeliano sia nei 20 paragrafi della risoluzione, sia negli 88 documenti che l’Onu inoltrava alla Corte (fra i quali non riteneva di dover includere nemmeno le risoluzioni Onu di condanna del terrorismo, ne’ le lettere con cui Israele ha piu’ volte denunciato all’Onu il terrorismo di cui e’ vittima).
La Corte dell’Aja fissava tre giorni di audizioni a partire dal 23 febbraio e chiedeva agli Stati interessati e a una serie di enti internazionali, oltre alla “Palestina”, di sottoporle le loro opinioni.
Israele rifiutava di presentarsi all’Aja, non riconoscendo alcuna competenza della Corte su una questione politica e di sicurezza, e presentava una memoria scritta di 133 pagine (disponibile in inglese all’indirizzo http://securityfence.mfa.gov.il/mfm/Data/49486.pdf). Benche’ critici verso la barriera o verso alcuni suoi aspetti, sulla stessa posizione di Israele si attestavano l’Unione Europea nel suo insieme e individualmente vari paesi fra cui Canada, Repubblica Ceca, Germania, Olanda, Regno Unito e Stati Uniti. All’Aja si presentavano a testimoniare solo in 13, oltre all’Autorita’ Palestinese: Giordania, Algeria, Sudan, Arabia Saudita, Turchia, Cuba, Belize, Sudafrica, Madagascar, Senegal, Bangladesh, Indonesia e Malesia.
L’opinione dei 15 giudici della Corte dell’Aja potrebbe essere resa nota a distanza di settimane o mesi dal termine delle audizioni.

Facciamo un breve passo indietro. Siamo nel maggio 2002. E’ in corso una problematica riunione del comitato centrale dei laburisti israeliani, all’epoca ancora al governo con Sharon: occorre formulare una nuova strategia di pace dopo il fallimento del processo di Oslo nel sangue dell’intifada Al Aqsa. Ci prova Haim Ramon, che propone: “Israele si ritiri dall’85% dei territori e si annetta il rimanente 15%, dove sono concentrati tre quarti dei coloni”. E spiega: “In mancanza di un partner palestinese affidabile, dobbiamo agire unilateralmente. Barak ha cercato di arrivare a confini definitivi con il negoziato, ed era pronto a fare grandi concessioni. Ma non e’ riuscito. E non per colpa nostra, ma per colpa di Arafat. Siamo l’unico paese al mondo senza un limite netto fra noi e i nostri nemici. E’ come vivere in una casa senza porta ne’ serratura”. In Israele quasi nessuno crede piu’ che il ritiro dai territori significhi la pace con i palestinesi e il mondo arabo. Ma ritirarsi unilateralmente, pensano i laburisti, potrebbe almeno servire a rendere piu’ difendibili le linee di demarcazione e piu’ “legittima” l’autodifesa di Israele. E’ l’eterna speranza delle colombe israeliane: vedere finalmente Israele libero di difendersi, magari persino con la comprensione, se non proprio il sostegno, della comunita’ internazionale. Allora ci penso’ Shlomo Ben-Ami, ex ministro degli esteri di Barak, a raffreddare gli animi. “Un confine stabilito in modo unilaterale da Israele – disse – non sara’ mai accettato, neanche provvisoriamente. Anzi, offrira’ un’infinita serie di pretesti a palestinesi e loro alleati per continuare ad attaccare Israele”. Un’infinita serie di pretesti: esattamente cio’ che sarebbe poi accaduto con la campagna contro il “muro”.
Poco dopo quella riunione, infatti, nel luglio 2002 il governo israeliano decideva “la costruzione di una barriera temporanea, come strumento difensivo non-violento per ostacolare l’accesso di terroristi suicidi nelle citta’ e nei villaggi israeliani”. E da quel momento il “muro” e’ diventato il principale capo d’accusa contro Israele, il nuovo crimine, l’ennesima prova della sua intrinseca malvagita’. Fino all’estrema, tragica beffa di investirne la Corte di Giustizia Internazionale dell’Aja proprio nel giorno in cui veniva perpetrata l’ennesima strage di civili israeliani su un autobus di Gerusalemme.
Ogni pacata spiegazione sembra del tutto inutile. Inutilmente Israele spiega che si tratta di una barriera fatta di rete, sensori e pista di pattugliamento, e che il muro (fotografato decine di volte al giorno dalle agenzie internazionali) sorge solo in alcuni tratti (meno del 5% del totale), la’ dove piu’ intenso e’ il tiro dei cecchini sulle strade israeliane. Inutilmente spiega che la barriera, dove gia’ esiste, abbatte drasticamente il numero di infiltrazioni terroristiche (30% in meno di attentati, 50% in meno di vittime).
Israele ripete che non si tratta di un confine, per il semplice motivo che tra israeliani e palestinesi non esiste alcun confine, e che il confine deve essere discusso e stabilito mediante negoziati. Insiste che la barriera e’ reversibile, spostabile, smantellabile. In alcuni punti il tracciato viene effettivamente modificato, la barriera gia’ eretta viene spostata. Israele ricorda che gia’ altre volte baluardi difesivi militari ben piu’ imponenti sono stati smantellati, appena se ne e’ presentata la possibilita’ (cosi’ i bunker della linea Bar Lev sul Canale di Suez; cosi’ le fortificazioni nella fascia di sicurezza libanese). Solo la morte delle vittime del terrorismo e’ irreversibile, dicono in Israele, non una rete metallica o pannelli di cemento. E ricordano che, dal 1967, nessuno aveva mai pensato di costruire una tale barriera, finche’ negli ultimi anni sulla popolazione israeliana non si e’ abbattuta la piu’ micidiale serie di antenati terroristici che mai una societa’ abbia dovuto subire.
Israele sottolinea che il percorso della barriera, oggetto di continue revisioni tanto da rallentarne la costruzione, risponde all’unico criterio di proteggere il massimo possibile di cittadini israeliani coinvolgendo il minor numero possibile di palestinesi. La barriera deve essere utile. Spostarla a tutti i costi per farla coincidere con l’ex linea armistiziale fra Israele e Giordania del periodo ’49-’67, a scapito della sua efficacia, non avrebbe nulla a che fare con la sicurezza e quindi con lo scopo stesso della barriera. La stessa Convenzione di Ginevra prevede il diritto di appropriarsi di beni e terreni per “giustificate necessita’ militari”. “Difficile sostenere che proteggere i propri civili dalle spietate stragi del terrorismo non sia un legittimo obiettivo militare”, ha notato Evelyn Gordon sul Jerusalem Post (16.10.03).
Certo, la barriera crea una serie di difficolta’, talvolta assai pesanti, a un segmento di popolazione palestinese: disagi che Israele cerca di ridurre modificando il percorso, moltiplicando aperture e passaggi. Anche per questo la barriera viene costruita principalmente su terreni di pubblico demanio. Quando non e’ possibile, si utilizzano terreni privati, possibilmente non agricoli, che tuttavia non vengono confiscati ma restano dei proprietari, ai quali viene versato un congruo indennizzo. Ed e’ sempre possibile fare ricorso. Molti cambiamenti nel tracciato e nella struttura della barriera sono stati fatti sulla base di questi ricorsi.
Ma il problema centrale resta la difesa dal terrorismo. La liberta’ di movimento e’ importante, ricordano da Israele, ma non e’ mai piu’ importante del diritto alla vita. Inquieta invece constatare come il quesito posto dall’Onu alla Corte dell’Aja non faccia neanche menzione del terrorismo. Eppure i terroristi prendono di mira i cittadini israeliani sui posti di lavoro e di studio, nei luoghi di gioco e di svago, nei luoghi di culto, sui mezzi di trasporto, nei seggi elettorali, dovunque e in qualunque momento, fin dentro le loro abitazioni e le loro camere da letto. “Le violazioni di diritti umani perpetrate dai terroristi, a cominciare dal diritto alla vita – ha scritto Anne Bayefsky, di “UN Watch” (Jerusalem Post, 25.03.04) – ricadono nella categoria dei crimini contro l’umanita’. Sono tali secondo la definizione del Tribunale di Norimberga, della Corte Penale Internazionale e di organizzazioni come Amnesty International”. Di piu’, gli attentati terroristici possono essere definiti atti di genocidio, cioe’ “atti commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico o religioso”. E ricadono anche nella fattispecie della pulizia etnica, definita come “la rimozione sistematica da una certa area di un gruppo di persone etnicamente identificate, attraverso uccisioni o migrazioni forzate”. Ma l’Onu e la Corte dell’Aja non si preoccupano del terrorismo. Si occupano solo del “muro”. “Il messaggio e’ chiaro – conclude la Bayefsky – I diritti umani degli israeliani non sono nemmeno da prendere in considerazione”.
Eppure sono i terroristi palestinesi che hanno costruito la barriera, ribadiscono da Israele. Quando cessera’ il terrorismo, non vi sara’ piu’ bisogno di alcuna barriera anti-terrorismo. “E’ un’altra la barriera che dovrebbe preoccupare i sogni del mondo: e’ la barriera dell’odio”, ha scritto l’israeliana Angelica Calo’ al Corriere della Sera (11.01.04).
Una barriera contro il terrorismo e l’odio genocida che lo alimenta; una barriera che permetta anche di allentare i posti di blocco nei territori e la cruenta caccia al terrorista dentro citta’ e villaggi palestinesi; una barriera che imponga quella separazione fisica fra le due popolazioni che hanno invocato personalita’ come A.B. Yehoshua e Amoz Oz: forse e’ la condizione necessaria, per quanto amara e non sufficiente, per ipotizzare la ripresa di un negoziato di pace.
Si puo’ dubitare di questa diagnosi. Si puo’ discutere la terapia. Si puo’ insistere perche’ la messa in opera sia meno dannosa possibile per la popolazione palestinese. Ma non e’ lecito negare il problema. Affermare che Israele ha diritto a difendersi e poi contestare radicalmente qualunque, dicesi qualunque misura difensiva adottata, suona francamente ipocrita. E parlare di “ghetto”, di “apartheid” e di “crimini di guerra” e’ solo propaganda, e della peggior specie.

Vedi anche:
I diritti umani che la Corte dell’Aja non vede

http://israele.net/prec_website/analisi/26024bay.html