Bibi e Obama a Washington

Non volere Hamas a pochi km dall’aeroporto di Tel Aviv non significa essere un ostacolo alla pace

Da un editoriale del Jerusalem Post

image_2497Il tanto atteso summit tra il primo ministro israeliano Benjamin (Bibi) Netanyahu e il presidente Barack Obama ha finalmente avuto luogo lunedì, ed è anche durato ben più del previsto. Una volta terminato, i due ne sono usciti sorridenti, scambiandosi complimenti. Obama ha detto che la “relazione speciale” fra i due paesi è viva e vegeta.
Il che però ci dice poco su come siano andate realmente le cose dentro lo Studio Ovale, specie sulla questione cruciale della corsa iraniana alle armi nucleari. E non ci dice se il presidente americano sia rimasto personalmente persuaso che il processo per arrivare alla pace coi palestinesi è stato bloccato dalla sanguinosa spaccatura fra Fatah e Hamas e dal fatto che lo stesso Mahmoud Abbas (Abu Mazen), relativamente moderato, non ha ancora abbandonato posizioni massimaliste sui confini e sul cosiddetto “diritto al ritorno”. Né sappiamo se Obama intenda fare pressione su Abu Mazen perché riconosca il diritto di Israele ad esistere come stato del popolo ebraico.
Forse l’incognita più grande è se i due statisti – quali che fossero le loro prevenzioni – abbiano ora la sensazione di potersi fidare abbastanza da poter collaborare. Sebbene Obama e Netanyahu avessero avuto il loro primo “incontro ravvicinato” nel luglio 2008 al King David Hotel di Gerusalemme, quello di lunedì scorso è stata la loro prima riunione approfondita e sostanziale.
Obama ha assorbito più dei suoi predecessori la “versione” palestinese. Rivolgendosi ai giornalisti dopo il summit, ha parlato della situazione umanitaria a Gaza nella stessa frase in cui ricordava la situazione della sicurezza a Sderot. Sarebbe stato più utile se avesse sottolineato che Gaza non starebbe soffrendo queste privazioni se non fosse governata da un sanguinario movimento islamista che utilizza quel territorio per attaccare Israele.
Indipendentemente da ciò che è stato detto in pubblico, la questione è se Obama coglie la differenza fra un Netanyahu poco disponibile a favorire la creazione di ciò che potrebbe rapidamente trasformarsi in una “Palestina” controllata da Hamas in Cisgiordania (come è stato detto, una base delle Guardie Rivoluzionarie iraniane a un tiro di Qassam dall’aeroporto di Tel Aviv) e un Netanyahu “ostacolo alla pace”. Non sono la stessa cosa.
La maggior parte degli israeliani non ha alcun bisogno di essere convinta che uno stato palestinese smilitarizzato, inizialmente dotato di una sovranità limitata, risponderebbe a un chiaro interesse di Israele. Questo è il motivo per cui il governo Netanyahu, a quanto pare, intrattiene già contatti discreti con gli uomini di Abu Mazen per un ripresa dei negoziati.
Ma gli avversari di Netanyahu a Washington, insieme ai soliti sedicenti “amici” di Israele, premono su Obama perché spinga Israele a concessioni sugli insediamenti, che vengono descritti come l’unico vero ostacolo, anche se quelle stesse persone devono poi ammettere che i palestinesi sono paralizzati dalle loro divisioni intestine, e si sono rifiutati di accettare ottime proposte di riconciliazione avanzate più volte da Israele. Eppure, sostengono, se non apparirà in modo evidente che Obama non pende verso Israele, “l’opinione pubblica di tutto il Medio Oriente potrebbe rivoltarsi contro Obama”. La domanda è se Obama sia personalmente convinto di questo argomento.
Obama ha sottolineato il perdurante impegno dell’America per una soluzione “a due stati”, mentre Netanyahu ha detto che, se le due parti faranno progressi, “la terminologia verrà da sé”. Il primo ministro israeliano ha ribadito che Israele “non vuole governare sui palestinesi” e che “i palestinesi devono poter governare se stessi”. Ha detto che vuole far progredire i negoziati affinché i due popoli possano vivere fianco a fianco. Dal canto suo, Obama ha sottolineato la Road Map e gli impegni in essa previsti per entrambe le parti, compreso lo stop agli insediamenti, una tradizionale richiesta americana.
Sull’Iran il presidente ha ribadito che l’America è impegnata per la sicurezza di Israele, ammettendo che eventuali armi nucleari iraniane non sono una minaccia solo per Israele ma anche per gli Stati Uniti e per la stabilità di tutta la regione. Ha anche detto che non intende porre una scadenza limite a colloqui volti a persuadere Teheran che non è nel suo interesse perseguire armi nucleari, ma che naturalmente questi colloqui non potranno trascinarsi all’infinito, e che anzi si aspetta dei risultati concreti entro la fine dell’anno. In precedenza aveva detto a Newsweek che gli Stati Uniti non escludono nessuna opzione rispetto all’Iran.
In sintesi, Obama ha sottolineato la necessità di fare progressi sul binario palestinese, senza tuttavia minimizzare in alcun modo la minaccia che incombe dall’Iran; Netanyahu ha sottolineato la minaccia da Teheran, ma ha anche detto di essere pronto a riprendere “immediatamente” i negoziati coi palestinesi. La cosa forse più sorprendente è stata la fermezza con cui Obama a sottolineato la sequenza: progressi sul versante palestinese durante il cammino verso lo stop all’Iran. Praticamente il contrario del punto di vista di Netanyahu.
Nelle prossime settimane il presidente americano incontrerà a Washington il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) e il presidente egiziano Hosni Mubarak, dopo di che terrà un discorso speciale al Cairo rivolto a tutti i musulmani del mondo. Solo allora si potrà avere un quadro più chiaro della direzione in cui si muove la nuova amministrazione degli Stati Uniti.

(Da: Jerusalem Post, 19.05.09)