Cambiare paradigma

Un'accresciuta cooperazione tra Israele e paesi vicini potrebbe fare da catalizzatore per nuove e più creative soluzioni del conflitto

Editoriale del Jerusalem Post

Fattoria modello israeliana nel Sud Sudan

Fattoria modello israeliana nel Sud Sudan

Il primo ministro Binyamin Netanyahu è tornato su molti temi collaudati, nel suo discorso di lunedì davanti all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York. Ha messo in cima alle priorità la minaccia delle armi nucleari iraniane, spiegando che i pick-up e i kalashnikov dello “Stato Islamico” (ISIS) non sono sullo stesso piano di un Iran dotato di armi nucleari. Ha citato le parole dell’autoproclamato califfo dell’ISIS Abu Bakr al-Baghdadi, del capo di Hamas Khaled Mashaal e del ministro degli esteri iraniano, Mohammad Javad Zarif, mostrando come condividano tutti lo stesso obiettivo di “espandere le enclave di islamismo militante, dove non ci sono né libertà né tolleranza, dove le donne sono trattate come beni di proprietà privata, i cristiani vengono decimati e le minoranze vengono soggiogate, a volte messe di fronte alla brutale scelta tra convertirsi o morire”. Ha puntato il dito contro il culto della morte di Hamas sottolineando come Hamas, durante l’operazione “Margine protettivo”, abbia intenzionalmente aumentato il numero di vittime civili utilizzando uomini, donne e bambini palestinesi come scudi umani.

Ma nel suo discorso Netanyahu ha anche aperto un nuovo capitolo quando ha parlato di un’“occasione storica”: paesi mediorientali che erano nemici di Israele, teoricamente a causa del conflitto con i palestinesi, si rendono conto sempre più di avere fondamentali interessi comuni con lo stato ebraico. Giordania, Egitto, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti vedono come minacce dirette alla stabilità politica un Iran nucleare, un trionfante “Stato Islamico”, una retrograda Fratellanza Musulmana.

In questa regione gli ebrei corrono gli stessi pericoli di cristiani, curdi e yazidi, e ne condividono gli stessi interessi. Per tutti questi gruppi, sconfiggere i jihadisti dell’islamismo militante è un imperativo vitale. Ma il ragionamento sulla cooperazione con Israele non dovrebbe basarsi esclusivamente sul principio per cui “il nemico del mio nemico è mio amico”. Israele ha molto da offrire ai suoi vicini, e non solo come potenza militare. Israele può contribuire a rendere più accessibile l’acqua potabile. Israele può condividere le sue eccezionali tecnologie nei settori dell’agricoltura, della salute e dell’energia per contribuire a sradicare la povertà dalla regione e migliorare la salute. Dove imperversa il devastante handicap della malnutrizione, conseguenza almeno in parte del fanatismo religioso che rifugge da scienza e pensiero razionale, milioni di bambini potrebbero essere sottratti a questo destino, aprendo loro nuove prospettive di successo.

Profughi yazidi iracheni in fuga dai jihadisti dell’ISIS, lo scorso agosto, press oil confine con la Siria

Profughi yazidi iracheni in fuga dai jihadisti dell’ISIS, lo scorso agosto. “In questa regione gli ebrei corrono gli stessi pericoli di cristiani, curdi e yazidi”

Un riavvicinamento con il mondo arabo potrebbe anche cambiare radicalmente il paradigma per la riconciliazione tra israeliani e palestinesi. Anziché vedere la soluzione del conflitto israelo-palestinese come precondizione per la normalizzazione delle relazioni tra Israele e nazioni arabe, al contrario un’accresciuta cooperazione tra Israele e i paesi vicini potrebbe fare da catalizzatore per nuove e più creative soluzioni del conflitto. Migliorando le relazioni tra Israele e i suoi vicini e aumentando i livelli di proficua cooperazione, i politici al Cairo, ad Amman, ad Abu Dhabi, a Riyad sarebbero più propensi ad inoltrarsi lungo nuove iniziative che consentano a palestinesi e israeliani di vivere insieme in pace. Le nazioni vicine possono esercitare un’influenza cruciale sui colloqui di pace favorendo una dirigenza palestinese più moderata a Gaza, contribuendo a risolvere il problema dei profughi palestinesi, finanziando progetti regionali che generino posti di lavoro.

Il vecchio schema della soluzione a due stati non ha sortito risultati nonostante i ripetuti tentativi che vengono fatti ormai da più di vent’anni. È giunto il momento di pensare in modo più creativo. Un esempio di come un paese vicino possa radicalmente modificare il paradigma obsoleto dei due stati è venuto alla luce poche settimane fa: la stampa ha riferito che il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi aveva offerto al presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas un territorio nella penisola egiziana del Sinai adiacente alla striscia di Gaza con l’idea di trasformarlo in un futuro stato palestinese più praticabile. Successivamente (dopo il rifiuto di Abu Mazen) al-Sisi ha smentito d’aver avanzato l’offerta. Tuttavia, iniziative simili basate su interessi condivisi potrebbero in futuro portare a una svolta nel conflitto israelo-palestinese. Ma iniziative multilaterali di questo tipo potranno scaturire solo in un clima di cooperazione e di convivenza.

Noi ebrei – come i curdi, i cristiani, gli yazidi e altri gruppi di fede non musulmana o di etnia non-araba – siamo parte integrante del Medio Oriente. Le nostre radici risalgono a più di tremila anni fa. Siamo una nazione altamente sviluppata, con la più potente forza militare della regione. Siamo anche la nazione più innovativa della regione, dotata di tecnologie che potrebbero migliorare radicalmente il tenore di vita di tanti altri, in questa regione, come è accaduto per i palestinesi che hanno avuto la fortuna di nascere in Israele. E’ del tutto logico che una soluzione al conflitto israelo-palestinese si potrà trovare solo con lo stimolo e il sostegno da parte dell’intera regione, in un clima di rispetto e di collaborazione reciproca.

(Da: Jerusalem Post, 1.10.14)