Cammelli alati e colloqui di pace

Stupisce quanti "esperti" si rifiutino di fare i conti con alcune semplici domande

Di Clifford D. May

flying camelLe forze armate israeliane sono insolite sotto molti aspetti, a cominciare ad esempio da una pezza sulla manica dell’uniforme del capitano dell’aviazione Omri Levy sulla quale è rappresentato un cammello con un bel paio di ali. La spiegazione risale al 1947, quando egiziani, siriani, giordani e altri arabi avevano annunciato l’entrata in guerra per impedire la spartizione della ex Palestina britannica in due stati, uno ebraico e uno arabo (quella che avrebbe potuto essere già allora la soluzione “a due stati”), e deridevano l’idea che potesse mai esistere una forza aerea ebraica dicendo che una cosa del genere sarebbe potuta avvenire solo il giorno in cui i cammelli avessero “imparato a volare”. E così, l’anno successivo, il primo squadrone dell’aviazione israeliana adottò come simbolo il cammello con le ali.

Mi trovo in una base militare a nord di Tel Aviv, insieme a un gruppo di giornalisti americani che vengono ragguagliati sull’utilizzazione israeliana della forza aerea. Gli israeliani, ci viene spiegato, usano sia i droni (velivoli telecomandati) sia aerei con pilota per le operazioni di “visint”, intelligence visuale. Ma la loro missione non è solo quella di identificare gli obiettivi. Il loro compito è anche quello di fare tutto il possibile per evitare danni collaterali. “Ci assicuriamo che non vi siano civili attorno agli obiettivi – spiegano – Il nostro compito è colpire la capacità di Hamas e di altri di lanciare razzi contro di noi, ma non vogliamo uccidere la gente”.

In un filmato, girato da un Beechcraft 200 King usato per ricognizione, si vedono due figure indistinte che sembrano intente a preparare il lancio di un razzo dalla striscia di Gaza verso Israele. Non appena le figure si allontanano, il razzo viene distrutto dall’alto. Chiedo se i due tizi visti nel filmato sono stati presi di mira successivamente. “No – mi rispondono – sono stati lasciati andare perché c’era la possibilità, per quanto remota, che non fossero terroristi: che si fossero imbattuti per caso nel lanciarazzi e lo stessero esaminando per curiosità”.

Durante il conflitto dello scorso anno a Gaza gli israeliani si sono spinti fino a telefonare ai civili per avvertirli di lasciare certi edifici che dovevano essere colpiti perché nascondevano munizioni, armi o strutture di comando e controllo. A volte gli israeliani hanno fatto ricorso a un sistema di loro ideazione che chiamano “bussare sul tetto”: bombe molto piccole e relativamente innocue vengono sganciate sui tetti degli edifici da colpire per spingere la gente ad abbandonarli prima che vengano bombardati sul serio.

Faccio notare che si tratta di una pratica alquanto singolare. Nel corso della storia, senza mai rinunciare volontariamente all’effetto sorpresa, tutti gli strateghi militari hanno sempre puntato ad abbattere il morale del nemico, a sconfiggerlo definitivamente o perlomeno a costringerlo ad arrivare alla conclusione che continuare il conflitto comporterebbe un prezzo insostenibile. Mi chiedo se in questo modo gli israeliani non stiano invece convincendo i loro nemici nella striscia di Gaza che per loro è perfettamente tollerabile una lunga guerra, mantenendo l’obiettivo ultimo di eliminare Israele. L’ufficiale mi risponde che non lo sa, ma che una cosa sa per certo: che per gli israeliani è molto importante distinguere tra Hamas e la gente di Gaza.

Ma Hamas, anche questo è chiaro, non ha alcuna intenzione di mollare il potere a Gaza, e il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) non parla a nome di Hamas né della popolazione di Gaza. Abu Mazen è stato eletto presidente per quattro anni nel 2005, un anno prima che Hamas vincesse le elezioni parlamentari. Da allora, né lui né Hamas hanno più affrontato gli elettori. La popolarità di Abu Mazen in Cisgiordania è tutt’altro che solida. Un analista israeliano, che si presenta come palestinese e musulmano, riassume la cosa senza tanti complimenti: “Abu Mazen non ha alcun mandato per fare la pace con Israele”. Non basta. Qualunque concessione dovesse fare Abu Mazen, verrebbe considerata un tradimento da Hamas, da Hezbollah, dai governanti iraniani e da altri islamisti variamente distribuiti nella regione.

Mohammad Shtayyeh, storico membro della squadra negoziale palestinese, inviato dal presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) a incontrare i negoziati israeliani a Washington lo scorso 30 luglio, ostenta sulla sua pagina Facebook la mappa con la classica rappresentazione delle rivendicazioni massimaliste palestinesi: Israele è cancellato dalla carta geografica

Mohammad Shtayyeh, storico membro della squadra negoziale palestinese, inviato dal presidente dell’Autorità Palestinese Abu Mazen a incontrare i negoziatori israeliani a Washington lo scorso 30 luglio, ostenta sulla sua pagina Facebook la mappa con la classica rappresentazione delle rivendicazioni massimaliste palestinesi: Israele è cancellato dalla carta geografica

Mi domando: tutto questo non potrebbe spiegare, almeno in parte, come mai Abu Mazen, accampando vari pretesti, si è rifiutato di negoziare con gli israeliani per più di quattro anni? Che senso ha, dal suo punto di vista, sedere seriamente al tavolo delle trattative se sa che (1) non può fare un accordo e (2) che per lui fare un vero tentativo negoziale equivale a mettersi un bersaglio sulla schiena?

Non ho mai smesso di stupirmi vedendo quanti “esperti” si rifiutano di fare i conti con queste semplici domande, nella loro fretta di proporre e riproporre le soluzioni più banali e superficiali. Un esempio fra i tanti: Dov Waxman, professore associato presso il Graduate Center della City University di New York, sostiene che la chiave per la pace è “fare pressione su Israele”. Waxman lamenta che “gli ebrei americani non sono disposti a esercitare su Israele lo stesso tipo di pressione che gli irlandesi-americani esercitarono su IRA/Sinn Fein, spingendola a rinunciare alla violenza e a cedere le armi”. Ma davvero il professore crede che gli israeliani, che affrontano il terrorismo ogni giorno e, come si è detto, fanno più di chiunque altro per evitare di colpire civili, sono da paragonare ai terroristi dell’IRA? E suggerisce sul serio che gli israeliani “cedano le armi”? Ha la minima idea di quali sarebbero le conseguenze, se i suoi consigli venissero seguiti?

Anche l’editorialista Roger Cohen, del New York Times, sostiene il discutibile concetto che “gli ebrei americani potrebbero esercitare un’influenza sulla pace Israele-Palestina così come gli irlandesi-americani hanno svolto un ruolo significativo per la pace in Irlanda del Nord”. Ma Cohen perlomeno riconosce che “molti palestinesi ancora oggi sognano tutta la terra, con l’eliminazione di Israele”, mentre “nulla promuoverebbe la giusta causa di uno stato palestinese più di una irrevocabile rinuncia alla violenza da parte di tutte le fazioni palestinesi e una riconciliazione tra di loro sulla base di un compromesso territoriale con Israele”. Personalmente sono d’accordo, ma non riesco a immaginare i leader palestinesi che fanno questi passi più di quanto riesca a vedere i cammelli che imparano a volare. Dopodiché, come gli israeliani hanno dimostrato più e più volte, tutto può succedere.

(Da: Israel HaYom, 3.7.13)