Capire gli israeliani

Vale forse la pena cercare di riassumere brevemente il punto di vista della maggioranza degli israeliani

Da un articolo di Barry Rubin

image_1688Sembra che uno dei misteri più imperscrutabili e discussi del Medio Oriente sia come capire il punto di vista degli israeliani. Dunque vale forse la pena cercare di riassumere brevemente una questione che pare così ardua e complessa.
Dal 1967 in avanti gli israeliani hanno molto dibattuto fra di loro. Sia la destra che la sinistra concordavano sul fatto che i palestinesi e la maggior parte dei paesi arabi non erano disposti a fare la pace. Ma la sinistra pensava che grandi concessioni potessero condurre a un accordo politico permanente una volta che la controparte avesse avviato un processo di cambiamento. La destra dubitava molto che questo potesse accadere e riteneva che gli insediamenti nei territori conquistati servissero per mantenere nel frattempo il controllo su di essi. Solo una piccola minoranza considerava un obbligo religioso mantenere indefinitamente il controllo sui territori. La maggior parte degli israeliani considerava in termini tattici il controllo su quelle terre e la costruzione di insediamenti.
Verso la fine degli anni ’80, i segnali di un vero mutamento nelle posizioni politiche palestinesi erano ancora molto limitati. Ma nei primi anni ’90 la sconfitta dell’Iraq ad opera della coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti e il punto molto basso toccato dall’Olp sembrarono offrire una vera opportunità. Anziché incalzare il nemico e cercare di schiacciare definitivamente l’organizzazione palestinese – come sarebbe stato logico aspettarsi secondo la demonizzante immagine stereotipata della ferocia israeliana – Israele offrì aperture e concessioni, sperando di ricevere in cambio una pace autentica. Ne risultarono gli accordi di Olso del 1993 e l’avvio del conseguente processo di pace.
Mentre l’agognato obiettivo sembrava sempre più a portata di mano, il termini del dibattito all’interno di Israele si modificavano. La sinistra sosteneva che il leader palestinese Yasser Arafat avrebbe infine accettato e attuato un compromesso di pace. La destra sosteneva che l’avrebbe accettato, ma poi avrebbe infranto gli accordi. Quasi nessuno pensava che Arafat avrebbe rifiutato del tutto un buon accordo di compromesso.
La prova arrivò con il vertice di Camp David del luglio 2000 e con l’offerta del presidente Bill Clinton alla fine del 2000, accettata dal primo ministro israeliano Ehud Barak. L’offerta nella sua versione finale – a sua volta possibile punto di partenza per un ulteriore negoziato – prevedeva uno stato palestinese su Cisgiordania e striscia di Gaza comprendente una superficie equivalente alla totalità delle terre pre-’67 (grazie alla cessione di alcune parti minori di territorio israeliano in cambio dell’annessione a Israele di pochi blocchi di insediamenti), con capitale a Gerusalemme est e massicci indennizzi.
Arafat respinse questa proposta e al suo posto lanciò una rinnovata campagna di violenze e terrorismo.
A questo punto la percezione israeliana della questione venne ribaltata. Le grandi speranze degli anni ’90 – persino i miei amici più conservatori, benché titubanti sulla cessione di Gerusalemme est, avevano accettato l’idea di ampie concessioni e di uno stato palestinese in cambio di una vera pace – andarono in frantumi.
A livello internazionale, gli israeliani si sentirono traditi due volte. Innanzitutto c’era l’uso delle concessioni fatto dalla dirigenza palestinese per colpire Israele direttamente e minare la sua posizione internazionale. Dopotutto, era stato lo stesso governo israeliano che aveva smontato l’immagine negativa dell’Olp come di un movimento il cui obiettivo era la distruzione di Israele e il cui metodo di lotta privilegiato era il terrorismo. Si giunse al punto che una volta alcuni leader ebrei americani riscrissero un discorso di Arafat perché suonasse più moderato.
Il secondo tradimento era quello dell’occidente, soprattutto dell’Europa. Per anni era stato detto a Israele che se avesse fatto concessioni e si fosse assunto dei rischi per la pace, avrebbe avuto il sostegno e l’appoggio di tutto il mondo nel malaugurato caso che le cose prendessero una brutta piega. Ora, mentre subiva un’aggressione terroristica il cui altissimo prezzo di sangue era stato reso possibile proprio dal fatto d’aver accetto il rientro di così tanti palestinesi armati, e d’aver sponsorizzato gli aiuti a loro favore e di aver ceduto territori al loro controllo, Israele si trovava anche ad affrontare in occidente condanne politiche e un’immagine ostile.
All’interno del paese si formò un nuovo consenso, che mutuava un’idea dalla sinistra e una dalla destra. Dalla sinistra, la maggior parte degli israeliani fece propria l’idea di cedere il controllo sul grosso dei territori e accettare uno stato palestinese in cambio di una vera pace. Dalla destra, la maggioranza prese la convinzione che non vi fosse nessun valido interlocutore palestinese per la pace, e dunque nessuna possibilità concreta di una soluzione negoziata per parecchi anni a venire.
Naturalmente non è che tutti giunsero a queste conclusioni, ma la maggioranza sì. Su questa base, diversi miei amici che abitualmente votavano Meretz, a sinistra, ora votarono Ariel Sharon primo ministro.
Dopo mezzo secolo di guerra, a causa del quale tutti conoscono qualcuno o hanno dei parenti che sono morti per guerra o terrorismo, gli israeliani non vedono l’ora di fare la pace. Non è che pensino che Israele sia debole o impaurito, semplicemente sono fermamente convinti che la pace sia meglio della guerra (un concetto che non c’è alcun bisogno di ripetere loro ad ogni occasione). Lavorando sul lungo periodo, hanno appoggiato il ritiro unilaterale dal Libano meridionale e dalla striscia di Gaza, ed erano pronti a ritirarsi anche da gran parte della Cisgiordania. Se tali ritiri fossero una buona o una cattiva idea sarebbe tema per un altro articolo, ma di certo furono un tentativo di mostrare la volontà di Israele di non “occupare” un altro popolo. A quel punto toccava ai palestinesi mostrare cosa avrebbero fatto di questa opportunità. La risposta sono stati l’elezione di Hamas e il continuo terrorismo.
Dopo tutti questi discorsi politici, bisogna aggiungere che nessun altro paese al mondo, e forse nella storia, ha conosciuto degli alti e bassi e dei cambiamenti psicologici così rapidi e drammatici. Eppure i sondaggi d’opinione registrano un livello straordinariamente alto di soddisfazione personale. L’economia cresce, il progresso continua. Per quanti problemi Israele possa avere, vi è un diffuso ottimismo e una forte volontà di analizzare colpe ed errori e porvi rimedio.
Il che mi ricorda quel giorno a Tel Aviv in cui comprai un giornale americano e mi incamminai per via Sheinkin affollata di gente. Quando finalmente riuscii a trovare un tavolino libero in un caffè, mi sedetti, aprii il giornale e mi trovai davanti un articolo che spiegava come gli israeliani fossero depressi e atterriti per il terrorismo tanto che non nessuno usciva più nemmeno di casa.

(Da: Jerusalem Post, 29.04.07)

Nella foto in alto: Agenti di polizia israeliane confortano una donna sotto shock dopo un attacco di Qassam sulla città di Sderot