Cecità morale

Ong e opinione pubblica devono distinguere fra volontà di uccidere civili e impegno a risparmiarli

di Dan Kosky

image_2374Ancora una volta mass-media, organismi internazionali come le Nazioni Unite e influenti organizzazioni non governative (ong) gettano accuse su Israele.
Israele ha imparato parecchio dalla guerra in Libano contro Hezbollah del 2006: non solo ha ulteriormente ridotto i danni involontariamente causati alla popolazione civile dietro cui si barricano i terroristi, ma diffonde con maggiore efficacia e rapidità nell’arena dell’opinione pubblica i risultati delle proprie indagini e delle verifiche sulle accuse che gli vengono continuamente rivolte. Ma le famose ong insistono con la loro tradizionale pratica di gettare addosso a Israele accuse infamanti per lo più non controllate né verificate.
Durante la guerra in Libano del 2006 i gruppi per i diritti umani, in particolare Human Rights Watch e Amnesty International, si affrettavano a diffondere condanne pressoché quotidiane di “crimini di guerra” e dell’uso “sproporzionato” della forza da parte di Israele. In un caso specifico, nel villaggio di Qana, Human Rights Watch sostenne – senza prendersi la briga di fare alcun controllo sui fatti – che un attacco aereo israeliano aveva causato una strage di civili. I titoli su giornali e tv di tutto il mondo furono uno dei fattori che spinsero il primo ministro israeliano Ehud Olmert a decretare una tregua di 48 ore che di fatto diede a Hezbollah, in quel momento in seria difficoltà, l’opportunità di riorganizzarsi, prolungando ulteriormente la guerra e lo spargimento di sangue. Successivamente Human Rights Watch corresse l’accusa e le cifre, ma naturalmente la ritrattazione passò quasi del tutto inosservata, e comunque il danno era già fatto.
Nel 2002, nel pieno della campagna Scudo Difensivo, quando le Forze di Difesa israeliane, dopo due anni di attentati suicidi nelle città israeliane, erano passate alla controffensiva andando a stanare i terroristi dentro i territori palestinesi, l’accusa – poi rivelatasi falsa – che avessero compiuto un “massacro” di centinaia di civili inermi a Jenin venne rilanciata e alimentata da Amnesty International, col risultato di scatenare i titoli di giornali e tv in tutto il mondo.
Da quando è iniziata la controffensiva israeliana a Gaza, le dichiarazioni delle ong seguono esattamente lo stesso schema. Ovviamente gruppi come Amnesty International e Oxfam si sono precipitati ad etichettare le operazioni israeliane come “sproporzionate” e “indiscriminate”. Poco importa se gli esperti di diritto spiegano che la proporzionalità prevista dalle convenzioni internazionali non ha nulla a che vedere con la conta dei morti (quella si chiama faida, ed è un’altra cosa; un’operazione militare ha il compito di debellare il nemico colpendone i combattenti e di cercare di subire meno perdite possibile, militari e civili, nel contempo risparmiando il più possibile anche i civili dell’altra parte). Con il valido supporto dei agit-prop di Hamas e dei mass-media, l’idea di operazioni “sproporzionate” e “indiscriminate” è diventata moneta corrente.
La manipolazione dei termini legali del problema si manifesta anche nella frequente definizione della striscia di Gaza come di un territorio “occupato da Israele”. Paradossalmente, invece, l’unico cittadino israeliano presente nella striscia di Gaza alla vigilia della controffensiva anti-Hamas era Gilad Shalit, il soldato di leva sequestrato da Hamas due anni e mezzo prima mentre era in servizio di guardia in territorio israeliano e da allora trattenuto in ostaggio senza che di lui sia dato sapere più nulla (mai permessa neanche una visita della Croce Rossa), anche se la cosa non sembra aver scosso più di tanto i gruppi per i diritti umani.
I proclami attuali delle ong non sono che la continuazione di una precedente campagna su Gaza. La risposta iniziale di Israele ai lanci quotidiani di razzi, continuati anche dopo il ritiro, fu un parziale blocco dei confini. Reagire agli attacchi contro la popolazione civile israeliana con una classica misura non-militare come le sanzioni era evidentemente “sproporzionato” nell’altro senso. Eppure le ong lanciarono in una invereconda campagna che denunciava la “politica aggressiva” di Israele e definiva “crimine di guerra” la sua decisione di imporre una “punizione collettiva” alla striscia di Gaza (per inciso, anche le sanzioni al Sudafrica razzista erano una “punizione collettiva”?).
Inoltre le ong propongono continuamente una equivalenza morale fra le azioni di Hamas e quelle delle Forze di Difesa israeliane. Ma Hamas misura esplicitamente il successo delle sue operazione dal numero di civili israeliani uccisi (qualcuno si ricorda i festeggiamenti e i dolci distribuiti per le strade dopo ogni attentato?). Viceversa Israele usa tutta l’intelligence e la tecnologia di cui dispone per cercare di mirare il più possibile ai combattenti nemici ed evitare perdite fra i civili (con la stessa logica, fa transitare convogli di aiuti umanitari anche nel pieno dei combattimenti). Stando così le cose, continuare a invocare che “tutte le parti evitino di colpire civili” serve solo a creare la falsa impressione che le parti siano egualmente e altrettanto colpevoli.
Per certi aspetti lo stesso vale per l’invocazione ripetuta da tante parti affinché “cessino tutte le violenze”. È comprensibile che politici e capi di stato vogliano darsi un’immagine di imparzialità ed equidistanza se non altro per tenersi aperte diverse opzioni diplomatiche. Ma lo stesso non dovrebbe valere per le ong. Per loro natura, i gruppi per i diritti umani non dovrebbero rispondere a logiche politiche, ma solo ad una scelta di chiarezza morale. Nel caso dei combattimenti a Gaza questa chiarezza morale non si è vista per nulla.

(Da: YnetNews, 11.01.09)

Nella foto in alto: Aiuti per la popolazione di Gaza transitano al valico di Kerem Shalom mentre continuano i combattimenti contro Hamas