Che ne è del riconoscimento dello stato ebraico?

Prima di negoziare un contratto si stabilisce se si tratta di affitto o di cessione di proprietà.

Di Benny Levy

image_2987Tutta l’agitazione attorno al prolungamento della moratoria delle attività edilizie ebraiche in Cisgiordania distoglie l’attenzione dal prezzo aggiuntivo che Israele, a quanto pare, è chiamato a pagare in cambio del pacchetto di benefici promesso a Netanyahu: rinunciare alla richiesta che i palestinesi riconoscano Israele come stato nazionale del popolo ebraico prima di avviare i negoziati. Il primo ministro israeliano, che pure solo poche settimane fa aveva ribadito tale richiesta, ultimamente non ne ha più parlato. Eppure, senza quel preventivo riconoscimento non si capisce quale sarebbe l’oggetto esatto delle trattative.
Iniziare i colloqui su confini e disposizioni di sicurezza, come vogliono palestinesi e americani, equivale a condurre dei negoziati dove le parti discutono il prezzo, l’entità delle rate e le loro scadenze senza aver prima stabilito se stanno parlando della vendita o dell’affitto di un immobile. Se si tratta di vendita, una volta firmato il contratto il venditore non potrà più accampare alcun diritto su di esso; se invece è un affitto, resta inteso che il contratto non cancella i diritti di proprietà. Ecco il motivo per cui i contratti si aprono con un preambolo introduttivo nel quale le parti chiariscono l’intendimento comune, che viene prima del negoziato sui dettagli. Ad esempio: la Parte A intende dare in affitto un appartamento e la Parte B intende prenderlo in affitto, per cui le parti concordano che… (seguono le clausole del contratto con i dettagli da stabilire nel corso della trattativa).
Dunque, il preambolo introduttivo dell’“accordo dei sogni” con i palestinesi deve affermare che le parti intendono porre fine al conflitto con lo stato d’Israele considerato come lo stato nazionale del popolo ebraico, e il costituendo stato palestinese come lo stato nazionale del popolo arabo palestinese. Detto questo, le parti concordano che… (confini, sicurezza, Gerusalemme, profughi ecc. ecc.).
Il problema è che i palestinesi proclamano apertamente che rifiutano tale preambolo. Mahmoud Abbas (Abu Mazen) e Erekat hanno addirittura insolentito tale possibilità, e quando un esponente con molta meno autorità come Yasser Abed Rabbo è parso accennare a un posizione diversa, è stato subito zittito.
Questo significa che non vi è spazio per alcuna trattativa? Non necessariamente. Tuttavia, in mancanza di tale riconoscimento, non esiste alcuna garanzia che in futuro i palestinesi non avanzino ulteriori rivendicazioni su Israele, anche dopo la firma dell’accordo definitivo. Il conflitto potrebbe benissimo riaccendersi, e di questo si dovrà tener conto nella definizione dei dettagli dell’accordo.
Se il riconoscimento palestinese di Israele come stato ebraico fosse stato presentato apertamente al mondo – a Israele, al mondo arabo, al resto delle nazioni del mondo e alle istituzioni internazionali – ciò avrebbe permesso a Israele di esercitare maggiore flessibilità sulla questione dei confini, e di assumersi maggiori rischi sul fronte della sicurezza. Viceversa, se i palestinesi non riconoscono Israele come stato ebraico, ciò comporta di necessità l’elaborazione di accordi completamente diversi. Pertanto, mettere in chiaro le intenzioni palestinesi non è una precondizione, bensì un elemento essenziale per lo svolgimento dei negoziati.
Vengono spesso sollevate due obiezioni. La prima è: che bisogno ha Israele che la sua identità venga definita da un soggetto esterno? La risposta a questa domanda da “finto tonto” è che, naturalmente, non si tratta di questo: non è che l’identità di Israele debba essere determinata dai palestinesi, è che ai palestinesi viene chiesto di accettare la definizione che Israele dà di se stesso. In altri termini, si tratta di mettere in chiaro che i palestinesi, nel momento in cui intraprendono dei negoziati, accettano il principio che “due stati per due popoli” significa Israele per gli ebrei e stato palestinese per i palestinesi. Come si è detto, si tratta di un presupposto cruciale per l’elaborazione stessa delle clausole del contratto, che si ripercuote anche sulle questioni relative ai profughi (arabi ed ebrei), e che offre la speranza che l’accordo, una volta raggiunto, possa davvero porre fine al conflitto.
Anche la seconda obiezione – perché tale riconoscimento non venne chiesto in passato a Egitto e Giordania? – è un po’ da “finto tonto”. All’epoca della firma dei rispettivi trattati di pace con Israele, giordani ed egiziani non rivendicavano l’intero territorio d’Israele, e non indottrinavano intere generazioni di figli all’ethos del “ritorno nelle case di Jaffa e di Haifa”. La mancanza di un esplicito riconoscimento da parte di Giordania ed Egitto di Israele come stato ebraico non ne costituiva un implicito rifiuto, che è invece esplicito nelle posizioni palestinesi. Inoltre Egitto e Giordania non condussero negoziati tutti fatti di vaghezza, doppiezza e insincerità.
Intraprendere negoziati senza concordare innanzitutto le intenzioni delle parti significa ripetere l’esperienza degli Accordi di Oslo, il cui risultato fu – per dirla con le parole del compianto Yitzhak Rabin – “più buchi che formaggio”.

(Da: YnetNews, 16.11.10)

Nella vignetta in alto: Nel 1947 l’Onu chiese di dividere la Palestina Mandataria in uno stato arabo e uno stato ebraico, ma la risposta araba fu: “No a uno stato ebraico”. Nel 2010 Netanyahu ha chiesto ai palestinesi di accettare la soluzione a due stati. Ma… “No a uno stato ebraico”. (Dry Bones Blog, di Yaakov Kirschen, 27.1010: http://drybonesblog.blogspot.com/2010/10/jewish-state.html )