Che valore può avere un giornale che definisce Israele “pura malvagità, malvagità sadica, malvagità fine a se stessa”?

Il più screditato quotidiano israeliano è anche il più citato nelle rassegne internazionali. Ingenuità o malizia?

Di Marco Paganoni

La passione degli israeliani per il pluralismo e il libero dibattito delle idee si riflette anche nei loro giornali, che si fanno un punto d’onore di pubblicare editoriali che esprimono opinioni diverse fra loro e anche in contrasto con la linea generale della testata. Sicché è del tutto normale leggere sul filo-Netanyahu Israel HaYom gli interventi di Yossi Beilin, uno degli artefici degli accordi di Oslo, già ministro nei governi Rabin, Peres e Barak, e sul conservatore Jerusalem Post gli articoli del pacifista Gershon Baskin, già consigliere di Rabin e fondatore dell’Israel Palestine Center for Research and Information.

Ha’aretz invece è un problema. Certo, anche la vecchia testata dell’intellighenzia di estrema sinistra vanta fra i suoi opinionisti Moshe Arens, già ministro nei governi Likud, e Israel Harel, fondatore del Consiglio delle Comunità ebraiche in Giudea e Samaria. Ma serve a poco. Per il resto la sezione editoriali è dominata da anti-sionisti viscerali come Gideon Levy e Amira Hass (ma non sono i soli), consacrati alla missione di svelare al mondo che Israele, sorto nel peccato, è da condannare sempre e comunque.

Amira Hass, tanto per dire, è quella che ha pubblicamente difeso i lanci di pietre contro le auto di passaggio (“una metafora della resistenza”) anche quando causano l’invalidità o la morte di civili e bambini. Nel 2014 ha giustificato la sua stessa espulsione, in quanto ebrea, da un convegno nell’università palestinese di Birzeit. Nel 2001 ha perso una causa per diffamazione intentata dai coloni di Beit Hadassah, a Hebron, dopo che aveva riportato come oro colato false accuse palestinesi nei loro confronti, smentite anche da immagini video.

Gideon Levy, dal canto suo, è quello che nel 2007 venne al Festival-Storia di Saluzzo e Savigliano a dire che i soldati israeliani non stuprano le arabe perché sono talmente razzisti che le disprezzano troppo, coniando così la nuovissima teoria dello stupro come manifestazione di rispetto verso le donne del nemico. D’altra parte l’evento, che oltre all’israeliano Gideon Levy vedeva la partecipazione del palestinese Omar Barghouti, era organizzato secondo la collaudata formula di questo genere di incontri. Si invita un palestinese che dice peste e corna di Israele e un israeliano che dice peste e corna d’Israele: così è garantita la “par condicio”. Nel luglio 2016 Gideon Levy, non contento di accusare Israele di “razzismo, odio e disprezzo per la vita araba, culto della sicurezza, vittimismo e messianismo”, scrisse su Ha’aretz che il comportamento di Israele si spiega solo come “pura malvagità, malvagità sadica, malvagità fine a se stessa”.

Come ha scritto Isi Leibler, se Ha’aretz fosse letto solo dal pubblico israeliano, generalmente consapevole del contesto in cui si inserisce la sua faziosità, l’impatto sarebbe assai limitato, anche per via della sua bassa tiratura. Il vero problema è che l’edizione in lingua inglese (non a caso talvolta sottilmente diversa da quella in ebraico) e il sito internet (affidato a Noa Landau, compagna di vita di Avner Gvaryahu, uno dei più accesi e prevenuti attivisti di Breaking the Silence) vengono regolarmente seguiti da diplomatici e politici stranieri convinti di leggere “l’autorevole quotidiano liberal israeliano”, e rilanciati da mass-media internazionali. Gideon Levy e Amira Hass, e i servizi di Ha’aretz in generale, sono i beniamini delle rassegne stampa estere e di testate come l’Internazionale, per non dire di siti come invictapalestina, electronic intifada e simili.

“Quando i neo-nazisti mi inoltrano editoriali di Ha’aretz in cui si dice che Israele è il male, è ora di prendersi una pausa” è sbottato Jeffrey Goldberg, icona del giornalismo liberal americano, già ascoltato consigliere di Barack Obama, annunciando su Twitter che avrebbe sospeso il suo abbonamento. “Posso leggere cose anti-israeliane e antisemite di questo genere su altri siti web – ha spiegato – Davvero non c’è bisogno di un sito israeliano come questo”. Goldberg non è il solo. Diverse qualificate voci di sinistra hanno detto di non riuscire a sopportare l’isteria anti-israeliana che riempie le pagine del giornale. Irit Linur, editorialista liberal ospite fissa dell’edizione del week-end, ha scritto ad Amos Schocken, amministratore delegato ed editore di Ha’aretz: “Capisco che lo stato di Israele fondamentalmente ti disgusta, ma non intendo contribuire a un giornale che cerca in ogni modo di farmi vergognare del mio sionismo, del mio patriottismo e della mia intelligenza: tre qualità che mi sono estremamente care”. Uzi Baram, altra stimata firma di sinistra, ha scritto che i lettori, anche di sinistra, non vogliono leggere un giornale “che si vergogna del proprio sionismo ed è convinto che senza il boicottaggio dall’estero, Israele non abbia alcuna possibilità di modificare le proprie posizioni”.

Pochi giorni fa Razi Barkai ha reagito esasperato a un articolo in cui Gideon Levy attaccava lui e Chemi Shalev, entrambi editorialisti di Ha’aretz, definendoli collaborazionisti dell’occupazione. “Per Gideon Levy – scrive Barkai – esistono solo due visioni del mondo degne di considerazione: quella del maledetto Netanyahu (come lo definisce lui) e quella onesta e giusta, cioè la sua”. Invece, spiega pazientemente Barkai, “per molti israeliani come me, l’occupazione è sì un disastro, e la sua fine è necessaria. Ma che sia necessaria non vuol dire che sarà anche sufficiente per concludere il conflitto. Come scrisse un altro sionista di sinistra, Yeshayahu Leibowitz, è un dovere lasciare i territori, ma non ci sarà per questo la pace. Perché oltre all’occupazione ci sono autentici problemi di sicurezza, c’è l’indottrinamento islamista e c’è l’impossibile diritto al ritorno che nessun leader palestinese è disposto a cedere”. E conclude: “Per quanto mi riguarda, questo articolo è il certificato di divorzio di Gideon Levy dalla sua israelianità”.

Anche i lettori si fanno sentire. Ha scritto per esempio Jacob Mendlovic, da Ontario, Canada: “Ogni settimana Amira Hass e Gideon Levy pubblicano lo stesso prevedibile articolo che descrive i difensori di Israele come bestie senza cuore. Parlando dell’uccisione di un arabo che aveva colpito per tre volte un agente israeliano con un cacciavite, Amira Hass ha sostenuto che i militari israeliani hanno l’ordine di uccidere quando si tratta di arabi, e Gideon Levy ha ironizzato su quella terribile arma che sarebbe il cacciavite. Ma – sorpresa! – qui in Canada, il paese forse più multiculturale e liberale del mondo, il cacciavite è considerato un’arma letale. Lo scorso giugno, i poliziotti a Montreal hanno sparato e ucciso un uomo che li minacciava con un cacciavite. Nel 2015, gli agenti di Toronto hanno sparato e ucciso un uomo che li minacciava con un martello. Nessun poliziotto è stato incriminato e nessun giornalista canadese si sognerebbe di dar loro degli assassini. E la popolazione del Canada non è sotto attacco del terrorismo come quella israeliana”.

Ma Ha’aretz resta Ha’aretz ed è di tutt’altro segno la lettera dell’8 agosto rimasta in bella vista sul sito web per svariate settimane con il provocatorio titolo “Ho combattuto per l’indipendenza di Israele. Lo ammetto: anch’io sono un terrorista palestinese”. Firmata da Yehuda Keidar, un ex combattente contro l’occupazione britannica, e puntualmente rilanciata da siti anti-israeliani, rappresenta la più compiuta e conseguente applicazione del principio, caro a tanti commentatori smaliziati e disincantati, secondo cui “quello che è un terrorista per gli uni, è un combattente della libertà per gli altri”: senza considerare chi colpisce intenzionalmente civili indifesi e chi no; chi si batte per sopravvivere in mancanza di qualunque alternativa negoziale e chi invece usa la violenza per rifiutare e affossare le alternative negoziali; chi si batte per i propri diritti e chi invece ha l’obiettivo di negare diritti altrui e cancellarne l’esistenza stessa; chi nei mezzi e nei fini incarna un’ideologia genocida e chi da quella ideologia cerca di difendersi. Sostenere sempre che il terrorista degli uni è il combattente per la libertà degli altri significa sottrarsi al faticoso compito di formulare di volta in volta un giudizio storico, etico e politico; significa adagiarsi nell’ignavia etica, elevando la viltà morale a principio intellettuale. Certo che i britannici chiamavano terroristi i combattenti sionisti. Ma con tutto il rispetto per il suo passato, qualcuno dovrebbe ricordare a Keidar che anche i nazisti chiamavano i partigiani banditen. Eppure questo non consente a nessuno di sostenere che i baditen degli uni sono i partigiani degli altri e viceversa. Con buona pace di Ha’aretz e dei suoi estimatori.

(Da: informazionecorretta.com, 28.8.17)

 

Riceviamo e volentieri pubblichiamo: Caro Marco, io disprezzo Gideon Levi e ho anche avuto occasione di dirlo pubblicamente in un convegno a Bruxelles. Mi è stato risposto da degni e importanti membri dell’establishment del progressismo sionista che dobbiamo lasciare voce anche all’estrema sinistra, per evitare guai peggiori. Comprendo che la destra israeliana ed ebraica trovi disdicevole Gideon Levi, ma è importante che l’estrema sinistra israeliana ed ebraica trovi un modo di esprimersi pacificamente e non senta la necessità di passare ad altri modi di espressione, magari non democratici. L’estrema destra israeliana ha altri modi di esprimersi, ben più efficienti, con argomenti altrettanto ripugnanti quanto quelli di Gideon, anche se sono espressi da membri del governo. Ha’aretz è una fondamentale espressione democratica della società israeliana ed ebraica, ed è importante che continui a esistere, proprio perché dà fastidio al nascente fascismo ebraico. Ti sarò grato se vorrai pubblicare queste poche righe. Un caro shalom, Giuseppe Franchetti

Caro Giuseppe, sono d’accordo che è importante che esista Ha’aretz esattamente come in Italia è importante che esistano il Manifesto, il Fatto Quotidiano, Libero e La Verità. Ma cosa penseremmo se all’estero giornalisti, politici, diplomatici e opinionisti si affidassero quasi esclusivamente alla lettura del Manifesto? Non sarebbe un problema da segnalare ai lettori? Circa la dialettica interna, resto convinto che, come dappertutto, anche in Israele non è vero che il migliore contrasto alle derive di estrema destra (che ci sono) sia esercitato dalle voci di estrema sinistra. Anzi, è vero il contrario: le voci estremiste si giustificano e rafforzano a vicenda (m.p.)