Coi palestinesi bisogna smetterla di lasciar correre

Gli europei che sostengono con fervore uno stato palestinese dovrebbero cercare di alzare il prezzo del “no” dei palestinesi alle concrete proposte di pace

Di Dennis B. Ross

Dennis Ross, autore di questo articolo, è stato il capo negoziatore degli Stati Uniti per le questioni arabo-israeliani dal 1993 al 2001. I suoi libri, tra cui “The Missing Peace: The Inside Story of the Fight for Middle East Peace”, non sono tradotti in italiano

Dennis Ross, autore di questo articolo, è stato il capo negoziatore degli Stati Uniti per le questioni arabo-israeliane dal 1993 al 2001. I suoi libri, tra cui “Missing Peace: The Inside Story of the Fight for Middle East Peace”, non sono tradotti in italiano

Il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) insiste nell’utilizzare istituzioni internazionali per fare pressione su Israele, anche dopo la bocciatura subita al Consiglio di Sicurezza dell’Onu dove ha cercato di far approvare una risoluzione che imponesse il ritiro israeliano da Cisgiordania e Gerusalemme est. Abu Mazen ha poi annunciato che intende rivolgersi alla Corte Penale Internazionale, una mossa che sfocerà in accuse palestinesi e controaccuse israeliane senza modificare la realtà sul terreno.

Un esponente europeo che ho incontrato recentemente ha espresso simpatia per il tentativo dei palestinesi di far passare la risoluzione al Consiglio di Sicurezza. Gli ho risposto che, se è a favore di uno stato palestinese, è ora che coi palestinesi la smetta di lasciar correre. E’ ora che i palestinesi siano chiamati a pagare un prezzo per il fatto di continuare a concentrarsi sui simboli anziché sulla sostanza.

Dall’anno 2000 in poi, ci sono stati almeno tre seri negoziati culminati in proposte concrete per risolvere il conflitto israelo-palestinese: i parametri di Bill Clinton del 2000, l’offerta dell’allora primo ministro israeliano Ehud Olmert nel 2008 e gli sforzi del Segretario di Stato Usa John Kerry lo scorso anno. In ciascuno di questi casi è stata fatta ai leader palestinesi una proposta relativa a tutti i nodi fondamentali del contenzioso e la loro risposta è stato “no”, o semplicemente nessuna risposta. Evidentemente hanno valutato che per loro il costo di dire “sì”, o anche solo di avanzare una controfferta che richiedeva concessioni, era troppo alto.

La cultura politica palestinese è radicata in una narrazione di ingiustizia: l’atteggiamento anticolonialista e il profondo senso di risentimento portano a considerare ogni concessione a Israele come illegittima. Il compromesso viene descritto come tradimento, e i negoziati – che si basano per definizione su concessioni reciproche – costringeranno inevitabilmente qualunque leader palestinese a sfidare la propria gente dovendo prendere una decisione politicamente costosa.

Andare alle Nazioni Unite, invece, non comporta nulla del genere. Serve per esercitare pressione su Israele senza chiede nulla ai palestinesi. Tipicamente queste risoluzioni riguardano ciò che Israele dovrebbe fare e ciò che i palestinesi dovrebbero ottenere. Se dire sì alle proposte di compromesso è troppo costoso mentre non è costoso non fare nulla di concreto, perché mai dovremmo aspettarci che i palestinesi cambino rotta?

La narrazione palestinese è fondata su rivendicazioni che non ammettono compromessi con l'esistenza di Israele, come dimostrano invariabilmente tutte le mappe usate nella pubblicistica e nella propaganda

La narrazione palestinese è fondata su rivendicazioni che non ammettono compromessi con l’esistenza di Israele, come dimostrano invariabilmente tutte le mappe usate nella pubblicistica e nella propaganda

Ecco perché i leader europei che sostengono con fervore uno stato palestinese dovrebbero cercare di alzare il prezzo del “no” e del non agire dei palestinesi quando sul tavolo c’è un’offerta concreta. I palestinesi si preoccupano moltissimo del sostegno internazionale alla loro causa. Se sapessero di essere ritenuti responsabili della non risposta o del rifiuto di ogni proposta o soluzione equa, questo potrebbe cambiare i loro calcoli.

Purtroppo, la maggior parte degli europei si concentra molto di più sul comportamento di Israele e come minimo vuole veder mutare la politica israeliana sugli insediamenti. Ma rivolgersi alle Nazioni Unite o alla Corte Internazionale, per di più sotto elezioni israeliane, è controproducente. In Israele la cosa viene percepita come un approccio fazioso, e non fa che rafforzare i politici che preferiscono lo status quo: candidati che sostengono che il mazzo è truccato a svantaggio di Israele e che il paese ha bisogno di leader capaci di opporsi con fermezza alle pressioni inique.

Perché non aspettare? Se il nuovo governo israeliano, dopo le elezioni, sarà disposto ad avviare un’iniziativa di pace e a costruire solo negli insediamenti che sorgono su terre destinate molto probabilmente a far parte di Israele e non della Palestina, allora non ci sarà alcun bisogno di risoluzioni delle Nazioni Unite. In caso contrario, se gli europei decideranno di perseguire una risoluzione all’Onu, allora dovrà essere equilibrata. Non si può semplicemente rispondere alle esigenze palestinesi offrendo confini sulla base delle linee del 1967 con scambi di terre reciprocamente concordati e capitale nella parte araba di Gerusalemme est, senza offrire nulla di altrettanto specifico a Israele. E cioè: dispositivi di sicurezza che mettano Israele in condizioni di difendersi da sé, un ritiro graduale collegato alla performance dell’Autorità Palestinese in fatto di sicurezza e di governance, una soluzione della questione dei profughi palestinesi che permetta a Israele di preservare il proprio carattere di stato ebraico. Con ogni probabilità, tuttavia, i palestinesi respingerebbero una siffatta risoluzione. Accettarla richiederebbe di accettare compromessi che hanno rifiutato nel 2000, nel 2008 e nel 2014.

Ovviamente, non ci sono garanzie che il prossimo governo israeliano accetterebbe una simile risoluzione. Ma non sono gli israeliani quelli che premono per il coinvolgimento delle Nazioni Unite. Sono i palestinesi che lo fanno. E se la loro posizione non è per i due stati, né per la pace, questo deve comportare un prezzo. La pace richiede responsabilità da entrambe le parti. E’ giusto chiedere agli israeliani di accettare gli elementi di base che renderebbero possibile la pace: linee del 1967 con scambi di terre e costruzione solo nei blocchi di insediamenti destinati a Israele. Ma non è forse giunto il momento di chiedere ai palestinesi di fare la stessa cosa sul principio due stati per due popoli e sulla sicurezza d’Israele? Non è forse giunta l’ora di chiedere ai palestinesi che rispondano alle proposte e accettino risoluzioni che soddisfano anche le esigenze di Israele e non solo le loro?

(Da: New York Times, 4.1.15)