Come aiutare Abu Mazen

Se la comunità internazionale desidera davvero la fine del terrorismo e il successo della democrazia palestinese, allora deve cambiare atteggiamento

Da un editoriale del Jerusalem Post

image_524Israele e il resto del Medio Oriente, per non dire degli stessi palestinesi, hanno un chiaro interesse per il successo della democrazia nella società palestinese. Solo pochi mesi fa l’opinione corrente era che le uniche alternative al regime di Yasser Arafat fossero l’estremismo e l’anarchia. Le ordinate operazioni di voto di domenica e la relativa debolezza delle fazioni che cercano di tenere vivo il terrorismo dimostrano che questa opinione peccava per eccesso di pessimismo.
Ora, però, la comunità internazionale, magari con l’acquiescenza dello stesso governo israeliano, potrebbe essere indotta a fare l’errore opposto. Si attribuisce molta importanza alle dimensioni della vittoria di Mahmoud Abbas (Abu Mazen) come indicatore della sua futura capacità di dare seguito alla sua opposizione alla “intifada militarizzata”. L’esperienza insegna, tuttavia, che ciò che sarà determinante non sono i margini della vittoria, bensì le aspettative della comunità internazionale e la volontà da parte della comunità internazionale di perseguirle.
In fondo, Abu Mazen ha espresso posizioni contraddittorie. Da una parte ha parlato contro i terrorismo (senza usare mai questa parola), compresi i lanci di missili e mortai; dall’altra ha fatto campagna elettorale insieme a capi terroristi, ha celebrato i terroristi come eroi e si è chiaramente espresso contro l’uso della forza per porre fine agli attentati contro Israele.
Come ha spiegato un membro delle Brigate Martiri di Al Aqsa (affiliate a Fatah) al giornalista del Jerusalem Post che gli chiedeva se fermeranno gli attacchi dopo che il loro candidato Abu Mazen avrà vinto: “Ci fermeremo solo quando vi sarà un ritiro completo dalle zone palestinesi e vi saranno progressi nel processo di pace. Nella prima fase devono ritirarsi dalle nostre città, poi devono scarcerare tutti i detenuti, smantellare tutti gli insediamenti e accettare le richieste palestinesi. Dopo di che noi daremo ascolto agli appelli di Abu Mazen (per la fine degli attentati)”.
In questo contesto non ci sarebbe da stupirsi se Abu Mazen cedesse alla tentazione di continuare sulla stessa strada del suo maestro a intermittenza Arafat, il quale ogni tanto si dichiarava contrario alla violenza ma non muoveva mai un dito per fermarla, sostenendo sempre di essere troppo debole per prendere misure concrete contro il terrorismo senza ulteriore sostegno da parte dell’occidente.
Raramente un leader prende decisioni dolorose se può evitare di farlo. La linea più facile potrebbe essere quella di fare sfoggio di grandi sforzi, dichiararsi impotenti e starsene seduti ad aspettare che la marea di appelli a “sostenere Abu Mazen” dia i suoi frutti.
Se invece questa volta la comunità internazionale desidera davvero la fine del terrorismo e il successo del processo democratico palestinese, allora deve cambiare atteggiamento. Il sostegno finanziario alla nuova/vecchia dirigenza palestinese deve essere strettamente vincolato sia alla fine del terrorismo e delle violenze, sia alle riforme democratiche. E lo stesso governo israeliano, è appena il caso di aggiungere, non deve fare nulla che possa minare lo stretto collegamento fra l’appoggio al leader e i suoi comportamenti. (…)
È necessario condizionare i negoziati alla cessazione del terrorismo. Ma non è sufficiente, giacché il leader palestinese potrebbe sempre optare (come fece il suo predecessore) per nessun negoziato e nessuna cessazione del terrorismo, nella speranza che alla fine Israele sia costretto comunque a negoziare. Il vincolo necessario deve invece essere tra l’aiuto finanziario, dal quale dipende completamente l’Autorità Palestinese, la fine delle violenze e la costruzione della democrazia. Quest’ultimo obiettivo tende ad essere rapidamente liquidato, soprattutto in Israele. Ma un “cessate il fuoco”, per quanto benvenuto, non potrà mai durare sulle sabbie mobili di un regime dispotico e arbitrario. (…) “La gente sa bene chi sono i boss che spadroneggiano e uccidono – ha dichiarato domenica scorsa al The New York Times l’economista e analista politico Salah Abdel Shafi – Se non hai forti legami con una milizia o una tribù o una famiglia potente, sei nei guai. Persino una banale lite stradale può portare all’omicidio”.
Uno stato senza legge non può fermare il terrorismo, né fare la pace.

(Da: Jerusalem Post, 10.1.05)

Nella foto in alto: Circondato da uomini armati, il capo locale delle Brigate Martiri di Al Aqsa Zakaria Zubeidi vota domenica in un seggio di Jenin.