Come leggere tra le righe lo scoop di Al Jazeera

Alcuni punti da tenere a mente di fronte alle carte “riservate” palestinesi diffuse dalla tv del Qatar.

Di Herb Keinon

image_3046Vi sono diversi punti chiave da tenere a mente quando si leggono i documenti palestinesi “riservati”, pubblicati dalla tv Al Jazeera e passati al quotidiano britannico The Guardian.

Primo. Non si tratta di WikiLeaks. Mentre molti dei dispacci diplomatici pubblicati dal sito WikiLeaks sono documenti redatti da osservatori americani relativamente obiettivi in servizio nelle varie capitali del mondo, i documenti di Al Jazeera sono stati scritti da una parte direttamente coinvolta e interessata ai negoziati, che presenta la prospettiva e la percezione palestinese degli eventi che si succedono.

Due. Non è chiaro se e come questi documenti siano stati rivisti ed eventualmente modificati. Nel caso dei dispacci di WikiLeaks, si leggono documenti americani integrali con tanto di intestazioni e destinatari e persino le abbreviazioni in uso nel gergo diplomatico americano (ad esempio, GOI per “Government of Israel”). Qui, invece, al lettore non è dato di sapere esattamente che genere di documenti sta leggendo, se si tratta di documenti integrali oppure no, e cosa sia stato eventualmente tralasciato. Pertanto, così come tutti i fruitori non sprovveduti di mass-media sanno di non poter prendere per oro colato i servizi di Al Jazeera ma di doverli sottoporre al vaglio di un buon filtro di scetticismo per fare la tara degli obiettivi più o meno reconditi dell’emittente (e lo stesso vale, sebbene in minor misura, per i servizi del Guardian dal Medio Oriente), lo stesso meccanismo deve entrare in funzione quando si analizzano questi documenti. Perché Al Jazeera ha deciso di diffonderli? E quali documenti ha deciso di diffondere? Quali sono gli interessi del Qatar? Non si dimentichi che Al Jazeera è finanziata dal Qatar, un paese che è in lite con l’Arabia Saudita perché cerca di nascondere i propri intrighi con l’Iran, e che è noto per le sue simpatie verso Hamas. Il Qatar, e di conseguenza Al Jazeera, non è necessariamente animato dal desiderio di vedere il successo dei negoziati fra Israele e Autorità Palestinese.

Tre. L’opinione pubblica israeliana non presta adeguata attenzione a quanto dicono i palestinesi. Uno degli elementi che spiccano da questi documenti ha a che fare con la posizione palestinese su Ma’aleh Adumim (la cittadina israeliana che sorge poco a est di Gerusalemme). Dal momento che una sfilata di politici israeliani – da Yossi Sarid e Yossi Beilin sulla sinistra, a Ehud Olmert e Ariel Sharon al centro – hanno affermato in passato che Ma’aleh Adumim resterà parte di Israele nel quadro di qualunque accordo futuro, vi è la tendenza nell’opinione pubblica israeliana a pensare che questo sia ciò che davvero finirà per accadere. Ma leggendo questi documenti risulta chiaramente che questo fatto dato per scontato – tanto da comparire anche nel famoso Accordo di Ginevra – scontato non lo è per niente. I palestinesi appaiono fermamente contrari all’annessione ad Israele di Ma’aleh Adumim, così come di Ariel, e non danno alcun segno di voler ammorbidire tale posizione. Il che ricorda un po’ l’amaro risveglio che molti israeliani ebbero nel 1993, dopo gli Accordi di Oslo. Gran parte dell’opinione pubblica si era convinta che non vi fosse alcuna possibilità al mondo che i palestinesi credessero davvero che il futuro accordo di pace finale avrebbe permesso a milioni di profughi palestinesi (e loro discendenti) di stabilirsi all’interno di Israele; ma poi hanno dovuto aprire gli occhi e scoprire che, per la verità, la popolazione palestinese ci credeva eccome. E non solo ci credeva, ma voleva anche far la guerra per questo.

Quattro. In realtà c’è qualcosa di nuovo, in questi documenti, ma non poi molto. Quando il polverone si sarà posato, apparirà chiaro che non vi sono veri terremoti. Che i negoziatori palestinesi fossero disposti a lasciare a Israele i quartieri ebraici di Gerusalemme al di là della Linea Verde (la ex linea armistiziale fra Israele e Giordania del periodo 1949-1967), con l’eccezione di Har Homa, non è una novità, né costituisce un segnale di chissà quale flessibilità, checché vogliano far credere Al Jazeera e il Guardian. Si tratta di un tema già discusso a Camp David (luglio 2000) e sancito nella formula dei parametri di Bill Clinton (dicembre 2000), secondo i quali a Gerusalemme i quartieri ebraici sarebbero rimasti sotto sovranità israeliana e i quartieri arabi sotto sovranità palestinese. Lo stesso principio compare anche negli Accordi “informali” di Ginevra del 2003, ed è anche uno dei principi alla base della bozza di accordo elaborato nel 2002 da Ami Ayalon e Sari Nusseibeh. Semmai, è la rivendicazione palestinese su Har Homa, presente nei documenti di Al Jazeera, che rappresenta un passo indietro rispetto a questo punto di riferimento. Anche il fatto che si parlasse di una “soluzione creativa per la questione del Bacino Santo” (l’area di Gerusalemme Vecchia ad alta concentrazione Luoghi Santi) non può essere considerato come un segnale di grande elasticità da parte palestinese, giacché tutti sanno che idee in questo senso erano già state discusse da Yasser Arafat e Ehud Barak ai negoziati del 2000 a Camp David (e forse anche prima).
Un elemento di novità che emerge, o perlomeno un elemento di cui l’opinione pubblica non era probabilmente a conoscenza, sarebbe la disponibilità dei negoziatori palestinesi a lasciare che restino alcuni insediamenti nel futuro stato palestinese a patto che gli ebrei che vi abitano accettino di vivere sotto sovranità palestinese. Lo schema dato per scontato, fra gli israeliani e non solo, quando si parla dell’accordo di pace, è che tutti gli insediamenti al di là del futuro confine definitivo dovranno essere sgomberati, e che tutti gli ebrei dovranno andarsene come avvenne nel Sinai (1982) e nella striscia di Gaza (2005). Ma leggendo i documenti di Al Jazeera si scopre Ahmed Qorei (Abu Ala) che dice che gli ebrei potranno restare. Il che suona ai più come una novità. Ma sarebbero al sicuro? Beh, questa è tutt’altra questione e – sempre stando ai documenti di Al Jazeera – la risposta di Tzipi Livni fu un chiaro no. Resta il fatto che, stando perlomeno a questi documenti, i negoziatori dell’Autorità Palestinese non pretenderebbero più uno stato totalmente sgombro da ebrei.

Cinque. La reazione dell’Autorità Palestinese mostra che stiamo andando indietro. Anziché brandire questi documenti e dichiarare ad alta voce e con fierezza che essi dimostrano la disponibilità dei palestinesi a fare grandi concessioni sulle loro rivendicazioni massimaliste pur di fare la pace, la reazione dei dirigenti dell’Autorità Palestinese è stata l’esatto contrario: si sono precipitati a negare e smentire tutto, proclamando che l’Autorità Palestinese non ha ceduto e non cederà mai un centimetro. E questo è un bel problema. I documenti di Al Jazeera, come avevano già fatto quelli di WikiLeaks, mostrano ancora una volta l’enorme divario fra ciò che i leader arabi dicono in pubblico (e al loro pubblico) e ciò che dicono in privato. Dai documenti di WikiLeaks era emerso nel modo in cui i capi arabi parlavano dell’Iran a porte chiuse in confronto a quello che dicono davanti a microfoni e riflettori. Ora lo stesso si vede qui: in pubblico “nemmeno un centimetro”; poi, in privato, i toni sono un tantino differenti.
Lunedì la leadership dell’Autorità Palestinese aveva l’opportunità di dire finalmente in pubblico (e al suo pubblico) ciò che a quanto pare già dice in privato: che non intende restare attaccata ad ogni granello di sabbia. Ma non l’ha fatto, e questo non promette bene per il futuro.

(Da: Jerusalem Post, 24.1.11)

Nella foto in alto: Herb Keinon, autore di questo articolo