Come sdoganare Hamas (senza nulla in cambio)

Dal momento che Abu Mazen ha stretto un accordo con la Hamas di sempre, a cosa serve incontralo?

Da un editoriale del Jerusalem Post

image_1585Hamas è andata ai colloqui della Mecca sul governo di unità nazionale palestinese con l’obiettivo di ottenere ciò che persegue sin da quando è salita al potere: la foglia di fico della partecipazione di Fatah al governo, senza dover accettare nessuno dei tre principi indicati dal Quartetto internazionale (Usa, Ue, Russia, Onu), e cioè senza aderire agli accordi precedenti, senza ripudiare il terrorismo e senza riconoscere il diritto ad esistere di Israele. Hamas ha ottenuto quello che voleva: “unità” senza concessioni. Ora la palla è nella metà campo del Quartetto. E di Israele.
Se l’accordo terrà – se non altro per le pressioni dei sauditi e per la paura di nuove uccisioni fratricide – Hamas farà cappotto. I leader di Hamas si sono tenuti a debita distanza dai paletti indicati dal Quartetto. In una lettera, Hamas promette solo di “rispettare” gli accordi precedenti. Visto come Fatah ha tranquillamente violato degli accordi con Israele a cui era vincolata in modo molto più solenne, questa dichiarazione di Hamas appare essenzialmente priva di significato.
Finora la posizione ufficiale del Quartetto e di Israele è quella di aspettare e vedere se il nuovo governo di unità nazionale palestinese si atterrà in effetti alle tre condizioni. Il nuovo governo non è stato ancora formato, e non ne sono state neanche delineate le linee programmatiche. In ogni caso sarà guidato da Hamas, per cui non v’è ragione di attendersi che faccia concessioni che non siano state fatte nei colloqui in Arabia Saudita. A maggior ragione se, come previsto, la stessa Arabia Saudita inizierà a finanziare il nuovo governo direttamente, allentando la pressione finanziaria esercitata su di esso.
In questo quadro dovrebbe essere chiaro che non c’è motivo perché il Quartetto o Israele inizino a finanziare il governo palestinese guidato da Hamas. L’aiuto ai palestinesi, secondo quanto riferito dalle Nazioni Unite, è già cresciuto del 10% da quando Hamas è stata eletta un anno fa, arrivando a toccare nel 2006la cifra astronomica di 1,2 miliardi di dollari, senza contare i fondi raccolti direttamente da Hamas. Si tratta di aiuti occidentali che sono stati fatti arrivare ai palestinesi senza passare attraverso il governo palestinese, per cui non c’è motivo di iniziare ora a versare aiuti direttamente a una Hamas che non è affatto cambiata.
L’interrogativo più significativo è cosa sarà della pretesa dell’occidente di poter sostenere il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) e negoziare con lui facendo finta che Hamas non esista. Già è previsto, ad esempio, per il 19 febbraio un summit fra Abu Mazen, il segretario di stato americano Condoleezza Rice e il primo ministro israeliano Ehud Olmert.
Dal momento in cui Abu Mazen ha stretto un accordo di collaborazione con una Hamas non cambiata, è corretto domandarsi quale sia lo scopo di un incontro di questo genere.
L’ultima idea venuta fuori è quella di trattare con Abu Mazen come se le parti avessero raggiunto la Fase Due della Road Map, quella in cui dovrebbero iniziare i negoziati sullo status definitivo. Trattative che verrebbero considerate informali, giacché la Fase Uno della Road Map, che prevede la fine del terrorismo e lo smantellamento dei gruppi terroristici, non è mai stata applicata. La logica sottesa a questa mossa sarebbe quella di creare un “orizzonte politico” e l’illusione di un movimento diplomatico. Il problema è che la Road Map stessa – per non parlare degli Accordi di Oslo, delle offerte israeliane a Camp David nel 2000 e delle numerose dichiarazioni di leader israeliani a favore di un’indipendenza palestinese – non basta per convincere i palestinesi che il loro stato basta che lo chiedano, per cui è improbabile che i colloqui possano cambiare qualcosa.
Sia il Quartetto che Israele devono capire che il motivo per cui Hamas non vuole fare la pace con Israele non è perché l’”orizzonte politico” non è abbastanza chiaro. Il motivo è che Hamas semplicemente rifiuta l’orizzonte che viene proposto: due stati che vivano in pace fianco a fianco.
In queste circostanze l’incontro della Mecca è stato un passo indietro per la pace, giacché ha garantito a Hamas fondi e riconoscimento. Quello che occorre è il contrario: che i palestinesi in generale, e Hamas in particolare, comprendano di non avere altra opzione se non quella di porre fine al terrorismo e accettare il diritto di Israele ad esistere.
Parlare con Abu Mazen – la nuova foglia di fico di Hamas – non aumenterà la pressione su Hamas perché ripudi il terrorismo e riconosca Israele. Per ottenere questo, il Quartetto dovrebbe fare pressione sugli stati arabi affinché diano l’esempio scongelando pubblicamente le loro relazioni con Israele e respingendo con chiarezza le posizioni – come la pretesa del cosiddetto “diritto al ritorno” in Israele dei profughi e dei loro discendenti – che sono incompatibili col diritto ad esistere di Israele. Sdoganando Hamas senza che questa abbia modificato le sue posizioni, l’accordo della Mecca fa esattamente il contrario, e dunque fa fare un passo indietro alla pace.

(Da: Jerusalem Post, 11.02.07)

Nella foto in alto: Il primo ministro palestinese Ismail Haniyeh, lunedì, al suo rientro a Gaza dall’Arabia Saudita