Come si inventa un mito (contro Israele)

Questa volta il New York Times ha cercato di cavarsela con una breve nota di rettifica

Di Yair Lapid

Yair Lapid, autore di questo articolo

La cosa che spiccava di più, e più irritante, nell’editoriale di Marwan Barghouti pubblicato lunedì dal New York Times, era la frasetta alla fine dell’articolo che ne identificava l’autore: “Marwan Barghouti – diceva sbrigativamente – è un leader e parlamentare palestinese”. E questo non è un errore, ma un inganno intenzionale.

Chiunque leggesse il pezzo senza una preventiva conoscenza dei fatti non poteva che arrivare alla conclusione che Barghouti è un combattente per la libertà incarcerato per le sue idee. Niente è più lontano dal vero. La parte mancante in tutto l’articolo è che Marwan Barghouti è un pluriomicida. Barghouti è stato condannato nel 2004 da un tribunale civile (non militare) israeliano per cinque diversi capi d’accusa relativi a omicidi di civili innocenti. Barghouti è anche coinvolto nel tentativo di perpetrare decine di attentati terroristici. Barghouti ha devastato famiglie e ha ridotto molte persone a una vita da mutilati. Ha distrutto vite intere.

Barghouti non solo crede nella violenza. Crede anche di avere il diritto di mentire. Crede in quell’approccio tipico delle organizzazioni terroristiche secondo cui l’Occidente è debole e ingenuo, per cui i nostri mezzi di comunicazione e le nostre buone intenzioni devono essere cinicamente sfruttati per attaccarci dall’interno. Lo sforzo del New York Times di mostrarsi “equilibrato” fa felice Barghouti, il quale sa bene che il sacro tentativo di essere “equidistanti” finisce col mettere sullo stesso piano l’assassino e l’assassinato, il terrorista e la vittima, la menzogna e la verità.

Marwan Barghouti fotografato nel carcere Hadarim di Ashkelon in compagnia del terrorista Samir Kuntar (personalmente responsabile della strage di una famiglia israeliana a Nahariya nel 1979) prima che quest’ultimo venisse scarcerato da Israele su ricatto Hezbollah

E così Barghouti può raccontare storie in stile horror sulle torture a cui sarebbe stato sottoposto durante le indagini israeliane. Accuse che non sono sostenute da nessun elemento di fatto. Le torture che descrive sono proibite dalla legge israeliana, ed anche i più grandi avversari di Israele riconoscono che in Israele la legge viene fatta rispettare. La realtà è che un terrorista processato e condannato si sta inventando delle storie su coloro che lo tengono in carcere come fanno i detenuti in tutto il mondo, compresi gli Stati Uniti. Invece di dirgli – come avrebbe dovuto fare un giornale responsabile – che senza uno straccio di prova a sostegno delle sue accuse, le sue storie non possono essere pubblicate, il New York Times ha pubblicato l’articolo nella pagina degli editoriali e non si è nemmeno preso la briga di spiegare ai lettori che l’autore è un riconosciuto assassino della peggior specie.

L’apice della violenta carriera di Barghouti si è avuto durante la seconda intifada: quella scoppiata, vale la pena ricordare, subito dopo che l’allora primo ministro di Israele Ehud Barak aveva fatto ai palestinesi un’offerta che tutto il mondo, a cominciare dall’allora presidente americano Bill Clinton, riteneva fosse impossibile rifiutare: ritiro grossomodo sulle linee del ‘67, divisione di Gerusalemme, soluzione umanitaria per la questione dei profughi. Yasser Arafat aveva detto “no” e aveva sguinzagliato Barghouti e i suoi a uccidere civili israeliani in attentati suicidi sugli autobus e nei centri commerciali. Ecco perché Barghouti è in carcere. Non per le sue opinioni, non per il suo desiderio di uno stato palestinese, non per il suo diritto alla libertà di espressione. Barghouti e gli altri che sono in carcere con lui per analoghi reati avrebbero potuto essere da molto tempo liberi cittadini di uno stato palestinese indipendente. Invece hanno scelto la strada del terrorismo, dell’assassinio e della violenza. Ma il New York Times ha tralasciato di dire tutto questo ai suoi lettori.

(Da: Times of Israel, 17.4.17)

“Barghouti è un terrorista e assassino condannato – ha dichiarato la vice ministra degli esteri israeliana Tzipi Hotovely (Likud) – Il New York Times ha offerto una tribuna a un terrorista, senza nemmeno specificare il fatto che è colpevole d’aver pianificato e realizzato l’assassinio a sangue freddo di ebrei per il solo fatto che erano ebrei”.

Ragazzini palestinesi davanti a un poster che inneggia ai capi di Fatah Yasser Arafat e Marwan Barghouti

Il vice ministro ed ex ambasciatore d’Israele a Washington Michael Oren (Kulanu) ha paragonato Barghouti allo stragista suprematista americano Dylann Roof, colpevole d’aver ucciso nove persone nella sparatoria della chiesa di Charleston del giugno 2015. “Si vergogni il New York Times per aver pubblicato un editoriale calunnioso firmato dal riconosciuto assassino seriale Barghouti, il Dylann Roof palestinese – ha scritto Oren su Twitter – Gli americani ne sarebbero inorriditi. E noi lo siamo”. Secondo Oren, l’articolo costituisce “un attacco terroristico perpetrato a mezzo stampa da Barghouti su un giornale a grande diffusione: un manifesto per i divulgatori di menzogne e i propagandisti del boicottaggio”.

Il ministro dell’istruzione Naftali Bennett (Bayit Yehudi) ha postato su Facebook la foto di Yoela Chen, madre di due figli, uccisa ad una stazione di servizio da terroristi agli ordini di Barghouti mentre si recava a un matrimonio. Sottolineando che Barghouti, in quanto comandante delle milizie Tanzim, emanazione di Fatah, è dietro a decine di omicidi di israeliani, Bennett ha aggiunto: “Marwan Barghouti non è solo un nemico: è un miserabile assassino che deve marcire in carcere fino al giorno della sua morte”.

“Ho letto un articolo sul New York Times di ieri – ha detto martedì il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu durante una visita nella città meridionale di Dimona – che presenta un capo terrorista come un parlamentare e un leader. Presentare Barghouti come un leader e un parlamentare è come definire Assad un medico pediatra”.

Investito dalle critiche, il New York Times ha successivamente postato sul suo sito web una laconica nota editoriale che dice: “Questo articolo spiegava la pena detentiva dell’autore, ma trascurava di fornire un contesto sufficiente, enunciando i reati per cui è stato condannato. Si tratta di cinque capi d’accusa per omicidio e appartenenza a un’organizzazione terroristica. Il signor Barghouti ha evitato di difendersi al processo, rifiutandosi di riconoscere competenza e legittimità del tribunale israeliano”.

In un intervento pubblicato martedì col titolo “L’autore di un editoriale omette i suoi crimini, e lo fa anche il Times, la public editor del New York Times, Liz Spayd, ha riconosciuto che questo genere di incidenti “mette a rischio la credibilità” degli editoriali del giornale.