Come si possono definire le “zone occupate” di uno stato, se si devono ancora stabilire i suoi confini?

Riconoscere ora lo “Stato palestinese” crea insanabili contraddizioni sul piano pratico e giuridico, ed è immorale

Di Alan Dershowitz

Alan Dershowitz, autore di questo articolo

Alan Dershowitz, autore di questo articolo

Nel 2012 il mio amico e collega Luis Moreno Ocampo, che era allora Procuratore capo della Corte Penale Internazionale, stabilì giustamente che “la Palestina non può essere riconosciuta come Stato”. Ora sembra invece che sia d’accordo con la conclusione del suo successore secondo cui “la Palestina può aderire allo Statuto di Roma” della Corte Penale Internazionale, presumibilmente in quanto “Stato”. Con tutto il rispetto, non sono d’accordo.

Come può un’entità diventare uno Stato, ai fini dell’adesione alla Corte Penale Internazionale, senza che si sappia qual è il suo territorio ed entro quali confini? L’ipotesi sembra essere che le linee armistiziali in vigore dal 1949 al giugno 1967 costituiscano oggi i confini de jure, se non de facto, dello “Stato palestinese”, nonostante il fatto che la stessa Autorità Palestinese mostra d’aver capito che non vi sarà mai un ritorno esattamente su quelle linee artificiali e irrazionali.

Se lo “Stato” palestinese, in quanto accettato dalla Statuto di Roma, dovesse essere definito dalle linee della tregua pre-‘67, ne conseguirebbe – ad esempio – che il Muro occidentale (o del pianto) e la spianata antistante, cioè il sito più sacro dell’ebraismo, sarebbero “territorio occupato” e qualsiasi israeliano trasferitosi in quella zona sarebbe un “criminale di guerra”, così come lo sarebbero tutti i leader israeliani che hanno permesso agli ebrei israeliani di pregare in quel luogo santo. Lo stesso vale per l’Università di Gerusalemme il cui campus sul Monte Scopus dal ’48 al ’67 rimase isolato come un’enclave entro il territorio occupato dalla Giordania, giacché durante la guerra di indipendenza d’Israele la Giordania era riuscita a impadronirsi della strada di accesso che collegava il campus alla parte ovest della città: dunque quella strada non fa parte del territorio de facto israeliano per-giugno ’67. Allo stesso modo, tutto l’antico quartiere ebraico entro la Città Vecchia di Gerusalemme, in cui gli ebrei avevano vissuto per secoli e secoli, venne catturato e brutalmente distrutto dalla Legione Araba giordana durante la guerra del 1948. Dunque, in forza di quella occupazione illegale oggi non dovrebbe far parte di Israele? Discorso analogo per Gilo, Ma’ale Adumim e altri sobborghi di Gerusalemme che, come hanno da tempo riconosciuto gli stessi rappresentanti palestinesi, rimarranno parte di Israele in qualunque soluzione negoziata pur trovandosi al di là della Linea Verde pre-‘67. Non basta. Lo scambio di territori che sarebbe contemplato da qualunque soluzione negoziata vedrebbe passare allo Stato palestinese alcune aree che facevano parte di Israele pre-’67 così come alcune aree che erano al di là della Linea Verde verrebbero a far parte di Israele.

Mappa del centro di Gerusalemme con le linee armistiziali del 1949 e dettagli sulle zone rimaste “terra di nessuno” tra Israele e Regno di Giordania. Le linee d’armistizio si basavano sulle linee di cessate fuoco del novembre 1948. L'accordo d’armistizio con la Giordania affermava esplicitamente che le linee tracciate non costituivano confini internazionali concordati de jure (cliccare per ingrandire)

Mappa del centro di Gerusalemme con le linee armistiziali del 1949 e dettagli sulle zone rimaste “terra di nessuno” tra Israele e Regno di Giordania. Le linee d’armistizio si basavano sulle linee di cessate fuoco del novembre 1948. L’accordo d’armistizio con la Giordania affermava esplicitamente che le linee tracciate non costituivano confini internazionali concordati de jure (cliccare per ingrandire)

Questi confini soggetti a negoziati e cambiamenti (in pratica, confini ancora da definire) mettono seriamente in difficoltà l’accusa che i palestinesi si ripromettono di sottoporre alla Corte Internazionale: come si può definire “crimine di guerra” il fatto che degli israeliani vivano in “zone occupate” quando così tante zone di presunta occupazione sono in realtà contese, mutevoli e soggette a futuri scambi di territori? Di più. La stessa risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza prevedeva che Israele avrebbe mantenuto alcuni territori legittimamente catturati nella guerra difensiva contro la Giordania del 1967, sebbene non sia stato mai deciso quanti e quali.

Questi problemi pratici illustrano chiaramente le incoerenze che sorgono quando si vuole riconoscere uno “Stato” privo di confini e i cui confini definitivi dovranno subire cambiamenti se si vuole arrivare alla pace. Non è nemmeno chiaro se attualmente lo “Stato palestinese” comprenda o meno la striscia di Gaza, che non è contigua alla Cisgiordania sin da quando l’Onu nel ’47 propose la divisione in due Stati di ciò che rimaneva della Palestina Mandataria britannica dopo la creazione della (Trans)Giordania. Oggi Gaza è sotto il controllo di fatto di Hamas, che è ampiamente considerato un gruppo terroristico privo di qualunque parvenza di legalità e di qualsiasi impegno per lo stato di diritto. I leader dell’Autorità Palestinese in Cisgiordania sono da considerare legalmente responsabili per gli atti terroristici di Hamas, sebbene non abbiano alcun controllo su ciò che accade a Gaza? E i capi militari di Hamas sono da considerare responsabili anche se, a differenza dell’Autorità Palestinese, non riconoscono la giurisdizione della Corte Penale Internazionale?

Oltre a questi problemi pratici, vi sono anche importanti ragioni tecniche e giuridiche per cui i recenti riconoscimenti simbolici da parte di diversi parlamenti e dell’Assemblea Generale dell’Onu della “Palestina” come “Stato” in realtà non modificano lo status giuridico di quello che giustamente veniva considerato un non-stato. Tanto per iniziare, la maggior parte dei “riconoscimenti” adottati dai parlamenti nazionali non sono stati accolti dai rispettivi governi. Diversi di essi, inoltre, così come il riconoscimento dell’Assemblea Generale, sono condizionati a una futura soluzione negoziata. Dunque non hanno “fatto nascere” uno “Stato palestinese” che ancora non c’è: la questione di cosa costituisca uno Stato coinvolge molto di più che votazioni simboliche, contingenti e di puro auspicio, fatte più per considerazioni di politica interna che per avere serie conseguenze diplomatiche e legali.

Tutta la pubblicistica nazionalista palestinese fa uso sistematico di mappe dello “stato palestinese” che non prevedono nessun confine con Israele, né l’esistenza stessa dello stato ebraico

Ma al di là di queste ragioni pratiche e giuridiche, vi sono anche considerazioni morali che depongono contro il riconoscimento di una “Palestina” in questo momento. La parte israeliana ha accettato, e quella araba-palestinese ha respinto, la soluzione dei due stati nel 1937 e nel 1948. Ha offerto terra in cambio di pace nel 1967 ricevendo per tutta risposta i famosi tre “no”: no alla trattativa, no al riconoscimento, no alla pace. Ha offerto generose proposte di compromesso nel 2000-01, nel 2008 e più recentemente nel 2014, nessuna delle quali è stata mai accettata. Ora, premiare questa intransigenza con un riconoscimento unilaterale è innanzitutto immorale, e poi è controproducente per la prospettiva di una pace negoziata. Se i palestinesi si convincono di poter ottenere il riconoscimento unilaterale senza negoziato né compromesso, nulla li spingerà ad accettare una soluzione di compromesso negoziata con la controparte.

Inoltre, a prescindere dalla buona fede di Ocampo secondo il quale la decisione palestinese di denunciare i leader israeliani davanti alla Corte Penale Internazionale “non deve essere interpretata come un attacco a Israele”, questo è esattamente il modo in cui la interpretata la dirigenza palestinese che parla di questa “carta” come di “un’arma”. E un’arma lo è davvero, giacché punta a creare una falsa equivalenza morale tra una vibrante democrazia governata dallo stato di diritto, da una parte, e dall’altra un incoerente assortimento di gruppi – Fatah, Hamas, Jihad Islamica e altri – che non accettano i risultati delle elezioni, assassinano i dissidenti senza nemmeno una parvenza di equo processo,  permettono ai propri mass-media ufficiali di istigare alla violenza contro civili in base alla loro etnia e religione. E punta anche a creare una falsa equivalenza morale tra un esercito che cerca di difendere i propri civili da attacchi di razzi, attentatori suicidi e tunnel per infiltrazioni terroristiche, da una parte, e dall’altra un gruppo terrorista che assassina civili nel sonno, sequestra e uccide ragazzini, prende deliberatemene di mira obiettivi civili facendosi scudo della popolazione civile.

Dice molto il fatto che Hamas ha subito espresso soddisfazione per la decisione della Corte Penale Internazionale di avviare un’indagine sulle azione militari d’Israele durante la recente guerra di Gaza. Dovrebbe essere evidente a qualsiasi persona ragionevole l’ipocrisia di un gruppo terroristico che si vanta dei suoi molteplici crimini di guerra e si rallegra per il fatto che le vittime dei suoi crimini di guerra siano oggetto di indagine per aver cercato di fermare attacchi di razzi e attentati.

Significativa la risposta degli Stati Uniti, che hanno rilasciato la seguente dichiarazione: “Siamo fortemente in disaccordo con l’azione del procuratore della Corte Penale Internazionale: il modo per risolvere le differenze tra le parti è attraverso il negoziato diretto, non con azioni unilaterali da una qualunque delle due le parti”.

Ocampo riconosce che il principio di “complementarietà” preclude un’indagine della Corte Internazionale su Israele a meno che in Israele “non via siano autentiche indagini nazionali sui crimini commessi sotto la sua giurisdizione”. Conosco bene il sistema giudiziario israeliano e i suoi meccanismi in fatto di indagini su presunti crimini di guerra: non c’è paese al mondo con un sistema giuridico che sia più ricettivo alle accuse avanzate da vittime di crimini di guerra. Al vertice del sistema israeliano c’è la sua Corte Suprema, largamente ammirata dai giuristi di tutto il mondo. Se si dovesse stabilire che il sistema giudiziario israeliano non garantisce la complementarità necessaria per negare alla Corte Penale Internazionale competenza giurisdizionale come “giudice di ultima istanza”, allora vuol dire che nessuna nazione la garantisce.

A conti fatti, la decisione di aprire un’indagine contro Israele in questo momento danneggia la credibilità della Corte Penale Internazionale e danneggerà le prospettive di una soluzione pacifica del conflitto. Si tratta di un grave errore che andrebbe subito corretto.

(Da: Jerusalem Post, 24.1.15)