Come trasformare una pessima idea in un’opportunità per la pace

Ecco cosa dovrebbe includere la risoluzione palestinese all’Onu per favorire davvero dialogo e riconciliazione.

Da un editoriale del Jerusalem Post

image_3228Gli americani stanno facendo un ultimo tentativo per convincere i palestinesi a fermare il loro piano volto a chiedere alle Nazioni Unite, fra una dozzina di giorni, il riconoscimento di uno stato palestinese lungo le linee del 1967 (vale a dire, le linee armistiziali rimaste in vigore dal 1949 al 1967 senza essere riconosciute come frontiere dalla parta araba). Gli Stati Uniti, così come altri paesi occidentali tra cui Italia e Germania, e ovviamente lo stesso Israele, preferirebbero – a ragione – che i palestinesi lasciassero perdere le loro pressioni per l’indipendenza unilaterale (cioè, senza un accordo negoziato) a favore di un onesto dialogo con Israele tale da condurre a un accordo di pace negoziato che sia accettabile per entrambe le parti. Purtroppo sembra altamente improbabile che gli sforzi di Washington possano avere successo.
I palestinesi rifiutano di smuoversi da una serie di inaccettabili richieste che hanno posto come condizione per negoziare con Israele. A meno che queste condizioni non vengano soddisfatte da parte di Israele, ha detto il capo negoziatore palestinese Saeb Erekat, non vi sarà ripresa dei colloqui e i palestinesi andranno avanti con la loro richiesta di un voto all’Onu.
Il congelamento delle attività edilizie è una di queste condizioni. La costruzione di nuove abitazioni negli insediamenti che già esistono per rispondere alla crescita naturale della popolazione non pregiudica l’accesso dei palestinesi alle varie località della Cisgiordania, e non ne modifica in modo sostanziale l’equilibrio demografico. Per contro, sostanziali progressi sul piano dei negoziati faccia-a-faccia offrirebbero la migliore chance ad israeliani e palestinesi di stabilire dei confini e, di conseguenza, arrivare a un accordo su chi possa costruire e dove. Eppure i palestinesi rimangono intransigenti sul congelamento, il che sembra dimostrare quanto la loro dirigenza sia più interessata a colpire la crescita demografica dello stato ebraico che non a promuovere la causa dell’autodeterminazione del popolo palestinese in un proprio stato sovrano.
I palestinesi chiedono inoltre che le linee del 1967 siano il punto di partenza dei negoziati, ignorando comodamente il fatto che negli scorsi 44 anni, mentre i palestinesi e in generale il mondo arabo si prendevano tutto il tempo per comprendere con grande lentezza che Israele non poteva essere distrutto con gli eserciti, col terrorismo, con l’assedio economico e diplomatico, e che un accordo di pace con Israele era l’unica opzione possibile, nel frattempo un po’ di fatti sono cambiati “sul terreno” sottoforma, in particolare con la nascita di alcuni blocchi di insediamenti di grandi dimensioni.
Ma la cosa forse più inquietante, in ogni caso, è il rifiuto dei palestinesi di cedere sul cosiddetto “diritto al ritorno”. Proprio la settimana scorsa Erekat ha dichiarato al corrispondete del Jerusalem Poist, Khaled Abu Toameh, che “rivolgersi alle Nazioni Unite non annullerà il diritto al ritorno”. “Il riconoscimento di uno stato palestinese – ha detto Erekat – permetterà allo stato [palestinese] di accedere alle istituzioni internazionali e rivendicare tutti i nostri legittimi diritti, compreso il diritto al ritorno”. L’insistenza dei palestinesi sul cosiddetto “diritto al ritorno” spiega perché si rifiutano di riconoscere Israele come stato sovrano del popolo ebraico. Accettare Israele come stato nazionale ebraico (pur con al suo interno minoranze non ebraiche dotate dei diritti che hanno le minoranze negli stati civili e democratici) comporterebbe ammettere che Israele ha il diritto di preservare una salda maggioranza ebraica. Viceversa, esercitare il “diritto al ritorno” dei palestinesi significherebbe un afflusso di milioni di “profughi” (o discendenti di profughi, o presunti profughi) che, sommati agli arabi israeliani che già costituiscono il 20% della popolazione del paese, metterebbero seriamente in pericolo e forse rovescerebbero la maggioranza ebraica.
Detto tutto questo, dal momento che il voto all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite – che i palestinesi si aspettano di vincere con ampio margine – sembra inevitabile, potrebbe esserci ancora la possibilità, attraverso una combinazione di pressioni energiche e minacce di sanzioni da parte del Congresso Usa, di rendere il testo dell’eventuale risoluzione (peraltro non vincolante) meno sfavorevole. Alcuni gruppi ebraici americani hanno avviato sforzi in questo senso, stando a quanto riferisce Ron Kampeas della Jewish Telegraphic Agency. Se una risoluzione che riconosce uno stato palestinese ha da passare, essa deve includere anche il riconoscimento di uno “stato ebraico” (“Jewish State” diceva la risoluzione 181 del 1947), deve rimanere volutamente vaga circa la questione del confine fra i due stati (che, come avviene in tutto il mondo, deve essere concordato fra i due stati interessati), e deve stabilire che, dopo l’approvazione della risoluzione stessa, vengano riavviati negoziati diretti fra Israele e palestinesi, senza precondizioni con l’obiettivo di porre fine al conflitto. Una risoluzione formulata in questo modo potrebbe realmente contribuire a far avanzare i colloqui di pace rispondendo agli obiettivi sia degli israeliani che dei palestinesi.
La creazione di uno stato palestinese è, di per sé, un eminente interesse israeliano, a patto che tale stato rispetti il diritto del popolo ebraico alla propria sovranità politica entro confini sicuri e riconosciuti. Il successo di una soluzione “a due stati”, che portasse alla pace e a una completa soluzione di tutte le rivendicazioni, non solo porrebbe fine a decenni di conflitto, ma garantirebbe anche ad Israele di poter continuare ad essere uno stato al contempo ebraico e democratico. Ma solo attraverso il dialogo e un autentico impegno per il riconoscimento reciproco e la riconciliazione da entrambe le parti si potrà pervenire a una vera pace.

(Da: Jerusalem Post, 8.9.11)

Nell’immagine in alto: in tutta la pubblicistica irredentista palestinese il cosiddetto “diritto al ritorno” (simboleggiato dalla chiave) viene costantemente rappresentato con la mappa di “tutta la Palestina”, e Israele risulta cancellato

Si veda anche:

(in inglese) Jewish groups say U.N. resolution is inevitable, but its wording isn’t set – di Ron Kampeas:

http://www.jta.org/news/article/2011/09/06/3089260/jewish-groups-say-un-resolution-is-inevitable-but-its-wording-is-not-set