Come una malattia incurabile

Tra i suoi tanti mali, il mondo ci fa dono di vari problemi almeno per il momento irrisolvibili.

Da un articolo di Shaul Rosenfeld

image_949La visione politica del mondo di moltissime persone si fonda sulla certezza che il conflitto arabo-israeliano possa essere risolto. Non c’è quasi politico, anche in Israele, di destra come di sinistra, che sia disposto a sollevare, anche solo in via ipotetica, la possibilità che questo conflitto non sia affatto risolvibile. Affermazioni come “tutti i problemi hanno una soluzione, ci vuole solo sufficiente volontà” oppure “è impensabile vivere sempre con la spada in pugno” costituiscono un denominatore comune ampiamente condiviso. Coloro che la vedono così antepongono, forse senza accorgersi, i loro desideri all’esame della realtà dei fatti. Non c’è niente di male nel coltivare volontà e desideri, a patto che essi non divengano uno strumento sostitutivo della lettura della realtà. Viceversa, il “libero” andirivieni fra desideri e realtà, e a maggior ragione il forzare la realtà entro i propri desideri, segnala tipicamente una difficoltà nel fare i conti con una realtà problematica, e nell’accettarne le implicazioni. […]
Tra i suoi tanti mali, il mondo ci fa dono di vari problemi almeno per il momento irrisolvibili in campi come la fisica, la matematica, la filosofia, la biologia. Ciò che vale per la scienza può valere anche per i conflitti politici. Alcuni di essi sono durati secoli, altri sono finiti con la scomparsa di uno o di entrambi i contendenti. Alcune nazioni non hanno lasciato dietro di sé niente di più che una nota a pie’ pagina nei libri di storia. È probabile che gran parte di coloro che erano coinvolti i quei conflitti credessero sinceramente nella possibilità di risolvere il loro problema, fino al momento in cui le loro speranze non sono svanite nel nulla.
Il conflitto arabo-israeliano è un conflitto del tipo che non può essere risolto? Sembrerebbe proprio di sì. Purtroppo presenta quasi tutte le caratteristiche per renderlo tale almeno per il futuro prevedibile.
Israele è percepito nel mondo arabo come un elemento estraneo, una spina nel fianco in una regione che gli arabi considerano fondamentalmente arabo-islamica. La relativa accettazione di fatto dell’esistenza di Israele nasce dalle magre possibilità che gli arabi ritengono d’avere, oggi, di eliminare Israele, dai legami che Israele ha con gli stati Uniti e, per alcuni paesi arabi, dai vantaggi economici garantiti dagli Stati Uniti. Qualora la forza di Israele o gli interessi delle varie parti diminuissero, scomparissero o cambiassero, Israele si troverebbe immediatamente costretto a combattere di nuovo per la propria sopravvivenza.
E non si tratta solo del conflitto israelo-palestinese, per il quale si può dire che le massime concessioni che Israele potrebbe fare sono molto meno del minimo che l’altra parte è disposta ad accettare, anche solo come passaggio provvisorio. In realtà la grande quantità di materia prima di natura storica, religiosa, culturale ed etnica che alimenta l’ethos predominante nel mondo arabo verso Israele non favorisce certo la genuina accettazione di un’entità politica indipendente ebraica nella regione. Tutt’al contrario.
L’immagine di Israele più diffusa fra gli altri abitanti di questa regione – quella di un’entità che opprime ed espropria e umilia e, contemporaneamente, di un’entità democratica e vincente (nelle guerre contro gli arabi), prospera e avanzata – certo non costituisce ragione d’ottimismo per coloro che sperano realisticamente in una riconciliazione.
Intanto i non realisti preferiscono, ad esempio, riproporre la sconsiderata strada di Oslo pur di veder attuato il loro schema.
Dunque, cosa si può fare? Bisogna evitare di cadere in trappole ingenue, tentare con cautela di risolvere ciò che può essere risolto, adoperarsi per abbassare l’intensità del conflitto, e continuare a vivere con la porzione di conflitto irrisolvibile. Come le malattie croniche che possono essere tenute sotto controllo, dobbiamo continuare a convivere con questo conflitto. Ci abbiamo convissuto per 120 anni, possiamo farlo per altri 120 anni e anche più, a patto di calcolare le nostre mosse con oculatezza, per esempio quando si tratta dell’aspetto demografico, astenendoci da piani troppo ambiziosi e pretenziosi come quelli ciclicamente riproposti da personaggi come Yossi Beilin.
Gli studenti di medicina imparano la regola del “primum non nocere”, prima di tutto non nuocere, cioè, nella sua accezione più ampia: considerare i possibili danni che possono essere provocati dall’intervento che si vorrebbe risolutore. E qui è il caso di aggiungere: considerare il danno provocato del tentativo di risolvere ciò che fondamentalmente non può essere risolto. Una regola che dovrebbe essere insegnata anche nelle scuole della politica.

(Da: YnetNews, 00.10.05)

Nella foto in alto: Manifestante anti-israeliano nel Baharein. Sul cartello, la celebre frase del presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad: “Israele deve essere cancellato dalla carta geografica”.