Con l’avvento di Trump, per Netnayhau nuove opportunità ma anche nuove sfide

In assenza di obiezioni preconcette, il primo ministro dovrà spiegare con precisione quale prospettiva vuole che sia sostenuta da Stati Uniti e resto del mondo

Editoriale del Jerusalem Post

Il neo-eletto presidente Usa Donald Trump con il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu

Stimolato dai commenti di Donald Trump sulla Conferenza di Parigi e sulla recente risoluzione del Consiglio di Sicurezza, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha osservato che tutto questo rappresenta “i colpi di coda del mondo di ieri”.

Siamo d’accordo con lui che l’incontro di Parigi e altre iniziative internazionali largamente basate su un approccio al conflitto israelo-palestinese top-down (dall’alto al basso), in particolare quelle che tentano di imporre precondizioni alle parti, rappresentano una reliquia del passato che vedrà la fine venerdì con l’insediamento del nuovo presidente americano. Solo attraverso un approccio bottom-up (dal basso verso l’alto), volto a ricostruire pazientemente sul terreno la necessaria fiducia tra israeliani e palestinesi, sarà possibile anche solo prendere in considerazione l’attuazione di un complessivo compromesso territoriale.

Purtroppo, Netanyahu è stato finora singolarmente reticente in materia. Ha parlato a lungo della sua  ampia visione di politica estera che intende avvantaggiarsi dei contributi di Israele nel campo della sicurezza informatica, della tecnologia militare e delle tecniche agricole, per citarne solo alcuni, allo scopo di migliorare le relazioni con il resto mondo, compresi diversi stati a maggioranza musulmana. Ed ha spiegato che ciò può portare a un miglioramento anche dei rapporti con i palestinesi, senza tuttavia fornire alcun dettaglio su come si possa andare avanti nella costruzione della fiducia con i milioni di palestinesi che vivono in Cisgiordania e nella striscia di Gaza.

Il silenzio di Netanyahu sulla questione ha creato un vuoto di progetto politico. Inevitabilmente un certo numero di politici della destra governativa hanno riempito questo vuoto proponendo pubblicamente le loro politiche. Il ministro dell’istruzione Naftali Bennett (di Bayit Yehudi) ha un piano che prevede l’annessione delle Aree C (le parti di Cisgiordania sotto controllo israeliano, dove vivono i coloni) accordando ai palestinesi una certa autonomia politica nei territori rimanenti. Il ministro della difesa Avigdor Lieberman (di Israel Beytenu) ha un suo piano, che la settimana scorsa ha illustrato in un’ampia intervista esclusiva al Jerusalem Post (la prima apparsa sulla stampa israeliana da quando si è insediato lo scorso maggio). Liberman caldeggia l’adozione di una serie di misure. In primo luogo, lavorare con la nuova amministrazione degli Stati Uniti per stabilire una nuova coalizione anti-terrorismo con gli stati arabi moderati, tale da creare un clima positivo e di fiducia reciproca che favorisca concessioni e compromessi. Nel frattempo, costruire fiducia fra i palestinesi migliorando la qualità complessiva della loro vita, a partire dalla creazione di una nuova zona industriale destinata ai palestinesi a Tarkumiya. Quindi concentrare le attività edilizie israeliane esclusivamente nei grandi blocchi di insediamenti prossimi all’ex linea armistiziale, quelli destinati a restare parte di Israele. Infine, sostituire il modello degli accordi di Oslo con nuovi scambi di territori e relativa popolazione che vi risiede, in modo che le aree israeliane con grandi centri abitati da arabi diventino parte del futuro stato palestinese (in cambio dei grandi insediamenti incorporati da Israele).

Naftali Bennett, leader di Bayit Yehudi, e Avigdor Lieberman, leader di Israel Beytenu, durante una seduta della Knesset

Anche il parlamentare non certo di primo piano Yoav Kisch (del Likud) ha un piano che, come quello di Bennett, prevede la (problematica) annessione di buona parte di Giudea e Samaria. In un’intervista al Jerusalem Post, Kisch ha osservato: “Dal momento che entriamo nell’era Trump, non possiamo restare passivi: dobbiamo proporre un nostro progetto”. E su questo gli diamo ragione.

Poco dopo l’insediamento ufficiale, Trump molto probabilmente fisserà un incontro con Netanyahu, e lì si presenterà un’occasione unica. L’amministrazione Trump sarà verosimilmente molto bendisposta verso il governo israeliano democraticamente eletto, forse più di ogni altra precedente amministrazione americana. Se Netanyahu articolerà una chiara visione del futuro delle relazioni israelo-palestinesi, molto probabilmente l’amministrazione Trump lo considererà con favore.

Il che paradossalmente complica le cose, perché per la prima volta Netanyahu, in assenza di obiezioni preconcette, sarà chiamato a spiegare quale prospettiva precisamente auspica che venga sostenuta da Stati Uniti e resto del mondo. Una soluzione a un solo stato, una soluzione a due stati o una qualche soluzione intermedia, come tanti iniziano a ipotizzare? Netanyahu deve decidere. Se non lo fa, all’interno della sua coalizione cresceranno le pressioni per procedere con annessioni unilaterali. Con una nuova amministrazione americana che ha già detto di non considerare gli insediamenti il principale ostacolo alla pace, Netanyahu troverà sempre più difficile contenere la pressione per le annessioni dall’interno del suo stesso partito Likud, per non parlare di Bayit Yehudi.

In numerose occasioni, la più recente in un’intervista di dicembre alla CBS, Netanyahu ha ribadito di essere a favore della soluzione “due stati per due popoli”. E’ stato meno esplicito su come pensa di arrivare a un accordo sui due stati. L’avvento dell’era Trump presenta nuove opportunità, ma anche nuove sfide. Aspettiamo di vedere cosa Netanyahu deciderà di fare.

(Da: Jerusalem Post, 17.1.17)