Confessione di un sionista democratico

“L’11 giugno 2009 pubblicai un pezzo in cui preponevo una formula di dieci parole. Tre giorni dopo, quella formula divenne la posizione ufficiale di Israele”

Di Ari Shavit

La verità è che la colpa è mia. Sono io quell’irrazionale, stupido e ignorante che ha messo al centro del dibattito pubblico israeliano la richiesta che Israele venga riconosciuto come stato nazionale del popolo ebraico. Non prendetevela con il primo ministro Benjamin Netanyahu. Non rimproverate Ruth Gavison, Tzvia Greenfield, Gadi Taub o Ben Dror Yemini. La colpa è mia. Sono io il rinnegato, il colpevole. Sono io il nazionalista senza speranza che crede profondamente in uno stato ebraico e democratico.

Ecco quello che è successo. All’inizio del mese di settembre 1993 venne pubblicato il testo completo degli accordi di Oslo. In quanto pacifista dichiarato e drogato di testi, studiai attentamente il documento con uno stato d’animo emozionato ed entusiasta. Ma dopo pochi minuti fui colto da un senso di orrore. Con grande sbigottimento avevo scoperto che l’accordo di pace destinato a porre fine al conflitto tra il movimento nazionale ebraico e il movimento nazionale palestinese non menzionava per nulla uno dei due movimenti nazionali. Mentre Israele riconosceva esplicitamente il popolo palestinese e i suoi diritti legittimi, i palestinesi non riconoscevano il popolo ebraico e i suoi diritti. Theodor Herzl fondò lo stato ebraico a Basilea, le Nazioni Unite riconobbero lo stato ebraico a Lake Success (New York), ma a Oslo lo stato ebraico era stato dimenticato.

Questo buco nero nell’accordo con i palestinesi è diventato la mia ossessione. Ho trascorso anni in “splendido isolamento” scrivendo numerosi articoli che chiedevano un riconoscimento esplicito del popolo ebraico e del suo diritto all’autodeterminazione nel suo paese, su una parte della sua storica patria. Il conflitto israelo-palestinese, sostenevo, non è una disputa territoriale, ma un conflitto esistenziale di identità. Esso deriva dal fatto che noi non vedevamo loro e loro non vedevano noi, e tutti quanti vivevamo nella reciproca negazione. Stando così le cose, l’unica via per la pace era un’autentica separazione con riconoscimento reciproco: due stati per due popoli.

I primi a interiorizzare il nuovo approccio furono in realtà i leader del campo della pace. Nei colloqui dei primi anni Duemila che portarono alla formulazione dell’Iniziativa di Ginevra, chiesero che i loro interlocutori palestinesi riconoscessero Israele come stato nazionale ebraico. La loro richiesta venne persino accolta, seppure in modo limitato e malvolentieri. Successivamente l’ex capo di stato maggiore delle Forze di Difesa israeliane Moshe Ya’alon adottò una linea simile, e così fece l’allora ministra degli esteri Tzipi Livni. Dopo il trauma della seconda intifada, la richiesta di un riconoscimento esplicito dello stato nazionale e democratico del popolo ebraico ha guadagnato sempre più consensi.

“Mentre Israele riconosceva esplicitamente il popolo palestinese e i suoi diritti legittimi, i palestinesi non riconoscevano il popolo ebraico e i suoi diritti” (come dimostrano costantemente le mappe di tutta la pubblicistica palestinese)

L’11 giugno 2009 pubblicai su questo giornale (Ha’aretz) un pezzo in cui preponevo una formula di dieci parole: uno stato palestinese smilitarizzato accanto allo stato ebraico di Israele. Tre giorni dopo, questa breve formula divenne la chiave di volta del famoso discorso di Netanyahu all’Università Bar-Ilan. La posizione secondo cui la soluzione del conflitto deve comportare il riconoscimento del diritto di esistere dello stato ebraico e democratico era diventata la posizione ufficiale di Israele. Oggi è accettata anche dal presidente degli Stati Uniti Barack Obama, dalla candidata presidenziale Hillary Clinton e da molti altri soggetti nella comunità internazionale.

Domanda: la nozione di uno stato ebraico e democratico ostacola la pace? No, anzi. Solo quando ogni bambino palestinese dei campi di Deheisheh e Balata saprà che esiste un popolo ebraico che ha – anch’esso – dei diritti su questa terra, la pace potrà avere inizio. La nozione di uno stato ebraico e democratico perpetua l’occupazione? No, anzi. Solo quando ogni adolescente israeliano di Ofakim e Migdal Ha’emek capirà che dividere la terra è necessario per garantire la continuità dell’impresa sionista, inizierà la fine dell’occupazione. L’idea di uno stato ebraico è antidemocratica? No, al contrario. In questo Medio Oriente violento e fanatico, solo uno stato ebraico può essere democratico e solo uno stato democratico può essere ebraico.

Israele deve riconoscere pieni ed eguali diritti a tutti i suoi cittadini, ma il mondo deve riconoscere il diritto di un piccolo popolo, minacciato e perseguitato, ad avere una casa. Cari amici e colleghi, l’ultima cosa che dovete fare è schierarvi contro la Dichiarazione Balfour, la risoluzione Onu per la spartizione del Mandato Britannico, la Dichiarazione d’Indipendenza e il diritto ad esistere dello stato ebraico: lo stato di Israele.

(Da: Ha’aretz, 25.8.16)