Corrado Israel De Benedetti

Anni di rabbia e di speranze. 1938 - 1949, La Giuntina, Firenze 2003.

«Verso le due del pomeriggio scorgiamo delle figure […]:

sono soldati […], noi chiediamo balbettando in inglese:

«Are you English?». «No» è la risposta.

«American?». E di nuovo «No». «Who are you?»

«I am a Jew».

Queste quattro parole ci lasciano sbalorditi […]»

De Benedetti, Corrado Israel, Anni di rabbia e di speranze. 1938-1949,

La Giuntina, Firenze 2003.

Una recensione di Claudia Rosenzweig

Prima di cominciare a presentare questo libro, vorrei ricordare un episodio accadutomi mentre ero in visita nel Kibbutz dei Combattenti del Ghetto, i Lokhame’ hagettatot, nel Nord d’Israele. Là ho avuto la fortuna di conoscere Marek Hermann, un ebreo originario di Lodz, che è stato partigiano in Polonia e in Italia e che, dopo avere dedicato la vita alla costruzione del Kibbutz e all’allevamento delle mucche, da pensionato fa il volontario nel Museo sulle persecuzioni ebraiche in Europa del Kibbutz, che contiene anche una biblioteca. Marek Hermann è una figura carismatica, affascinante. La moglie, timida e introversa, dopo avermi raccontato la tragica fine della sua famiglia, mi disse piangendo e sorridendo a un tempo: «Sai, a volte mi chiedo come abbiano fatto persone come noi, che hanno sofferto così tanto, che hanno perso tutto, a riuscire a costruire una cosa così bella come il nostro kibbutz.»

Il libro di Corrado Israel De Benedetti è una testimonianza che può essere avvicinata a quanto raccontava la signora Hermann. È infatti il libro di un protagonista di questa attività di costruzione dopo la rovina portata del nazi-fascismo con la II Guerra Mondiale. «Per la prima volta, dopo gli anni delle persecuzioni, della guerra e delle fughe», scrive De Benedetti, «mi si apriva davanti una strada del tutto nuova, mi si offriva un mondo del tutto diverso da quello fino ad oggi conosciuto della borghesia cittadina, dei compromessi, delle delusioni e dei vuoti di pensiero. Mi si spalancava davanti un mondo di ideali, bandiere nuove e pulite, un mondo dove saremmo stati noi soli a costruirci il nostro futuro come lo volevamo.» E ancora: «siamo traboccanti di voglia di essere ebrei e solo ebrei, tornare al nostro paese, costruire una società nuova, fare i pionieri e creare un kibbutz tutto nostro. […] il seminario ci ha aperto una strada bella, nuova e pulita tutta per noi» [p. 125].

Anni di rabbia e di speranze è un libro di ricordi, narrato con stile semplice e diretto, senza sentimentalismi. Il racconto è fatto in prima persona, al presente, come era già avvenuto nel primo libro di De Bendetti che Giuntina ha pubblicato nel 2001, I sogni non passano in eredità. Cinquant’anni di vita in kibbuz.

È il libro di una generazione che ha deciso di non dedicarsi alle parole, bensì di crescere nella vita concreta, di tornare alla terra, di abbracciare l’ideologia del kibbuz e di dedicare la propria vita, per tornare su un’espressione dell’autore stesso, a costruire un sogno. Anche nel tipo di narrazione, che potremmo definire quasi come una cronaca degli avvenimenti, si avverte questa scelta di concretezza, in questo riproponendo in italiano alcune caratteristiche della lingua, ebraica, come in genere una sintassi molto semplice, accanto a un lessico conciso, essenziale, a tratti persino colloquiale, nel quale le parole non sono mai ambigue.

Si tratta dunque di una autobiografia, divisa, come ci dice l’autore stessa, in un “prima” (l’adolescenza), un “durante” (la guerra e la persecuzione degli ebrei) e un “dopo” (il periodo del dopo guerra).

La parte per noi più interessante è senza dubbio l’ultima, quando l’autore descrive l’entusiasmo con cui lui e altri giovani ebrei abbracciano l’ideale sionista e socialista e in particolare ci offrono una testimonianza della Hakhsharà, «centro di preparazione professionale», «campo di avviamento al lavoro agricolo, integrato da corsi di lingua e cultura ebraica, e, per le correnti della sinistra sionistica, anche di marxismo»[citazione tratta da: Amos Luzzatto, Autocoscienza e identità ebraica, in Storia d’Italia. Gli ebrei in Italia, op. cit., pp. 1829-1900 e in particolare p. 1866, nota 89]. Le hakhsharot erano state create già prima della II Guerra Mondiale e destinate alla formazione professionale dei profughi ebrei intenzionati a partire per la Palestina. La prima hakhsharà in Italia fu fondata nel 1934. La Hakhsharà di cui De Benedetti ci racconta è quella di San Marco, soprannominata Tel broshim, la collina dei cipressi, che rimase in funzione dall’estate del 1947 a quella del 1958. Su questi temi la letteratura è ancora insufficiente, limitata a interventi sporadici raccolti ne La Rassegna Mensile di Israel e in modo organico soprattutto nel contributo di Simonetta Della Seta e Daniel Carpi, Il movimento sionistico, in Storia d’Italia. Gli ebrei in Italia, a cura di Corrado Vivanti, vol. II, Dall’emancipazione a oggi, Einaudi, Torino 1997, pp. 1321-1368. La bibliografia riportata in questo articolo ci farà comprendere ancora di più quanto quella di De Benedetti sia una testimonianza importante, che sarebbe interessante l’autore approfondisse ulteriormente. Una storia raccontata oggi potrebbe forse tenere conto del fatto che quegli anni nella coscienza delle nuove generazioni sono già molto lontani e poco noti, nonostante rappresentino un capitolo importante del sionismo in Italia e in altri paesi d’Europa.