Cosa cercano i sauditi?

Riyad vuole includere Hamas nel fronte arabo, non favorire i moderati anti-jihadisti in campo palestinese

Da un articolo di Dore Gold

image_1648Durante la sua ultima visita in Israele, il segretario di stato americano Condoleeza Rice ha dedicato particolare attenzione alla ripresa dell’iniziativa di pace araba formulata dai sauditi nel 2002. Il che ha fatto crescere le aspettative sulla possibilità che il summit di Riyad della Lega Araba offrisse una soluzione per la ripresa del processo di pace con Israele.
Di sicuro, i diplomatici israeliani speravano che i capi di stato arabi modificassero il piano di pace rimuovendo ogni riferimento al ritorno dei rifugiati palestinesi in Israele, considerato un ostacolo alle trattative da tutti i partiti politici del paese. Quando ciò è apparso improbabile, in molti hanno ritenuto che in mancanza di cambiamenti nella forma della proposta, ci sarebbe stata almeno qualche dichiarazione a margine della conferenza che venisse incontro all’opinione pubblica israeliana. Ma l’iniziativa di pace araba è partita col piede sbagliato, quando il ministro degli esteri saudita, Saud al Faisal, ha avvertito Israele che il rifiuto del piano avrebbe consegnato il suo destino nelle mani dei signori della guerra. Più che margini negoziali, a Israele è stato imposto un ultimatum.
Questo non era lo stile né del presidente egiziano Sadat né di re Hussein di Giordania. Si tratta piuttosto di un modo alquanto grezzo per offrire a Israele una qualche forma di modus vivendi. Inoltre, se Israele pensava che la diplomazia dell’ottimismo fosse basata su un coordinamento ben prestabilito tra Stati Uniti e Arabia Saudita, è rimasto completamente spiazzato dalle rivelazioni di Jim Hoagland sul Washington Post, secondo cui il re saudita Abdullah avrebbe cancellato la cena di gala di metà aprile con il presidente George W. Bush alla Casa Bianca. Nel corso dello stesso summit di Riyad, Abdullah si è lanciato in una forte critica verso gli Stati Uniti, definendo la presenza americana in Iraq “una illegittima occupazione straniera”.
L’Arabia Saudita ha dato dunque un chiaro segnale di cambiamento nella sua politica verso gli Stati Uniti. Hoagland ha appreso da fonti dell’amministrazione americana che Riyad ha deciso di cercare per il momento un terreno comune con Iran, Hamas e gli Hezbollah. Si capisce ora il motivo per cui i sauditi hanno scelto di rafforzare Hamas con l’Accordo della Mecca a spese di Mahmoud Abbas (Abu Mazen), che da allora è diventato politicamente sempre più marginale. Se oggi l’Arabia Saudita ha deciso di prendere le distanze dagli Stati Uniti, come può Washington pensare che i tempi possano essere maturi per un riavvicinamento tra arabi e Israele sotto la sua egida? Scott Mac Leodd, del magazine Time, ne ha concluso che i sauditi hanno lasciato la Rice “in alto mare”.
Quando l’iniziativa saudita fu discussa nel 2002 al summit della Lega Araba di Beirut, Hamas colpì il Park Hotel di Netanya mentre vi si celebrava la Pasqua ebraica, uccidendo 29 israeliani e ferendone oltre 150. All’epoca, l’Arabia Saudita non segnalò in alcun modo a Israele di essere seriamente intenzionata a favorire la pace tagliando i finanziamenti a Hamas. Questi, anzi, superarono il 50% delle risorse incamerate dall’organizzazione jihadista palestinese nel 2003. Inoltre i sauditi non si sono fatti avanti direttamente con Israele, ed hanno preferito lanciare la loro iniziativa tramite Thomas Friedman sulle colonne del New York Times. Il mezzo era il messaggio. La figura chiave che manteneva i contatti con la stampa per i sauditi era Adel al Jubeir, spedito a Washington per riabilitare l’immagine del regno negli Stati Uniti. Era chiaro quindi che l’iniziativa saudita non era diretta verso Israele, ma all’opinione pubblica americana post 11 settembre, rimasta scioccata dalla notizia che 15 dei 19 attentatori a New York e Washington erano cittadini sauditi.
Il vero problema dell’iniziativa di pace saudita va ben oltre la tanto discussa questione del “diritto di ritorno” dei profughi palestinesi all’interno di Israele. Il piano saudita richiede il “pieno ritiro” da “tutti i territori” che Israele ha occupato quarant’anni fa, con la guerra dei sei giorni del ’67, negando in questo modo la flessibilità che la risoluzione 242 del Consiglio di sicurezza dell’Onu lascia intenzionalmente nella definizione dei confini territoriali. Adottare il piano saudita per come è stato presentato porterebbe chiaramente a una ri-divisione di Gerusalemme. Inoltre priverebbe Israele di quei “confini difendibili” che, oltre alla 242, anche il Presidente Usa Bush ha definito un diritto di Israele in una lettera all’allora primo ministro Ariel Sharon dell’aprile del 2004.
Nel 2007, con il jihadismo qaedista che prende sempre più piede nella regione, le garanzie di sicurezza ricordate da Bush sono sempre più importanti. Le rassicurazioni contenute nella lettera sono fondamentali e sono state la cosa principale che Israele ha ottenuto in cambio del disimpegno da Gaza. Ora però quella lettera sembra caduta nel dimenticatoio. C’è infatti una contraddizione lampante tra il recente sostegno dell’amministrazione Bush al piano saudita e le rassicurazioni inviate per iscritto a Sharon solo tre anni fa.
Va detto che in passato a Israele non veniva chiesto di dichiararsi anche solo formalmente disposto al ritiro completo per poter negoziare con gli arabi. La conferenza di pace di Madrid del 1991 si basava sulla risoluzione 242 e aprì la strada a un avvicinamento diplomatico tra Israele e i paesi del Golfo, Arabia Saudita compresa. Se la 242 è stata sufficiente nel 1991, perché non dovrebbe esserlo nel 2007?
Anche la pace che i sauditi hanno proposto in cambio del completo ritiro non è come potrebbe sembrare ai poco informati. La promessa di una “relazione normale” con Israele riprende una formula diplomatica siriana risalente agli anni ‘90, equivalente in realtà a una versione annacquata di quella pace “all’europea” che si chiama “normalizzazione”. Ciononostante, l’iniziativa saudita è considerata una grande opportunità per Israele e mondo arabo: il ritiro completo in cambio della pace totale, anche se ci sono seri dubbi che questo sia il vero intento saudita.
Oggi, come nel 2002, la pace con Israele non è tra le priorità del governo saudita. Il suo problema principale non è il conflitto tra Israele e palestinesi, nonostante la forte identificazione ideologica della monarchia con la causa palestinese. L’attivismo diplomatico saudita, invece, è dovuto alla minaccia rappresentata dal rapido espansionismo iraniano e alla debole risposta occidentale. Ahamadinejad persegue l’obiettivo di una seconda rivoluzione khomeinista, il che comporta un’intensificazione degli sforzi iraniani nell’esportazione dello sciismo rivoluzionario ovunque sia possibile. In alcuni paesi a predominanza sunnita, quali ad esempio Sudan e Siria, gli iraniani sperano di convertire i sunniti allo sciismo. Nel Golfo, la componente sciita è già molto consistente. In Arabia Saudita, infatti, il principale elemento critico si trova nelle province orientali ricche di petrolio abitate a maggioranza da sciiti. Nel vicino Bahrein, da poco collegato all’Arabia Saudita con un ponte, l’80% della popolazione è sciita. Il potenziale per lo scoppio di una rivoluzione è altissimo. Nel 1979 e nel 1980 l’Iran khomeinista sostenne l’insurrezione sciita nelle province orientali dell’Arabia Saudita. In base ai documenti del tribunale americano, responsabile degli attacchi alle Khobar Towers nell’est del regno fu Hizbullah al-Hijaz, un gruppo terrorista sciita manovrato da Teheran.
Che può fare l’Occidente? Dovrebbe rassicurare gli alleati del Golfo assumendo una condotta più decisa verso l’Iran. La Rice non sbaglia se intende favorire un avvicinamento tra Israele e paesi arabi approfittando dell’esistenza di un nemico comune, ma i suoi sforzi dovrebbero prendere strade completamente differenti. L’Arabia sta affrontando una minaccia islamista sunnita all’interno e una minaccia sciita esterna, per questo l’ultima cosa di cui ha bisogno è la presenza di negoziatori e giornalisti israeliani a Riyad. E con Hamas che è al potere nei territori palestinesi e si rafforza militarmente a Gaza, Israele non ha certo bisogno di sperimentare nuovi ritiri. In queste circostanze, contatti più discreti e meno pubblicizzati tra Israele e i suoi vicini hanno maggior senso delle grandiose iniziative diplomatiche. Nella costruzione della pace, il fattore tempo è essenziale.
Su cosa potrebbe incentrarsi un’iniziativa negoziale di questo tipo? In primo luogo, trovare punti di convergenza con quei palestinesi disposti a prendere le distanze dall’Iran. E se non emerge nessuna leadership palestinese, incoraggiare l’Egitto e la Giordania a impegnarsi seriamente nel contrastare la presenza terroristica che si annida al loro interno. Al momento, però, non ci sono prove che questo stia avvenendo. Ma se l’Arabia Saudita sta cercando di accreditarsi come interlocutore costruttivo, dovrebbe utilizzare il suo peso politico ed economico dietro le quinte per neutralizzare quei gruppi che cercano di destabilizzare il Medio Oriente. Solo allora sarà possibile costruire i presupposti per la pacificazione della regione.
Ad oggi, comunque, la priorità dell’Arabia Saudita è allineare gli arabi su una posizione comune per fronteggiare la sfida posta da Teheran. Riyad ha interesse ad includere anche Hamas nel fronte arabo antiraniano e non a favorire una forza più moderata che si contrapponga all’organizzazione jihadista palestinese e che diventi interlocutore d’Israele. Dato che per l’Arabia Saudita è più importante la questione iraniana che il conflitto arabo-israeliano, Washington non dovrebbe essere sorpresa dall’esito del summit di Riyad.

(Da: Jerusalem Post, 29.03.07 – ora anche in: www.loccidentale.it)

Nella foto in alto: Il ministro degli esteri saudita principe Saud al-Faisal