Cosa si fa quando i palestinesi si rifiutano di negoziare? Si dà addosso a Israele

Postulati ripetuti per decenni come un mantra impediscono di pensare nuove soluzioni

Di Herb Keinon, Elliott Abrams, Gregg Roman

Herb Keinon

Scrive Herb Keinon: «Vi sono almeno due elementi considerevoli nel discorso di John Kerry. Il primo è l’insistenza sul fatto che le uniche soluzioni possibili del conflitto sono quella “a due stati” o quella “a un solo stato”. E’ il mantra che viene ripetuto da così tanto tempo da essere diventato assiomatico. Ma è un dogma che affossa qualsiasi possibilità di scandagliare altre opzioni più creative, strade diverse per arrivare allo stesso obiettivo. Se gli sforzi per negoziare una soluzione a due stati sono regolarmente falliti per così tanto tempo, forse è il momento di prendere in considerazioni altre opzioni che potrebbero, ad esempio, riportare Egitto e Giordania all’interno dell’equazione della pace. Forse ciò che occorre è un riesame di tutti i postulati che nel corso degli ultimi 23 anni sono sfociati nell’attuale situazione di stallo: in primo luogo quello secondo cui l’unica opzione possibile è creare due stati fra il mar Mediterraneo e il fiume Giordano. Nel 2010, ad esempio, l’ex membro del Consiglio di Sicurezza Nazionale israeliano Giora Eiland illustrò un piano che prevedeva la creazione di una federazione giordano-palestinese, in cui la Cisgiordania e la striscia di Gaza avrebbero formato due stati all’interno di un regno giordano federale allargato. Un’altra idea è quella di istituire uno stato palestinese basato principalmente su scambi di territori tra Egitto, Israele e la futura entità palestinese tali da espandere significativamente le dimensione della striscia di Gaza verso il Sinai egiziano, permettendo a Israele di mantenere una buona percentuale della Cisgiordania e garantendo all’Egitto un collegamento terrestre con la Giordania (lo stesso presidente egiziano Abdel-Fattah al-Sisi ha ventilato un’ipotesi di questo genere). Queste idee vengono troppo spesso liquidate come non realistiche, cose che i palestinesi non accetterebbero mai. Kerry non ha fatto altro che rafforzare questo modo di pensare bloccato.

Un compromesso sarebbe rinunciare al cosiddetto diritto al ritorno, che tutta la pubblicistica palestinese interpreta come il “diritto” di invadere Israele e cancellarlo dalla carta geografica

Un secondo punto considerevole del discorso di Kerry è stato l’invito a Israele a ritirarsi dai territori e sradicare gli insediamenti. Si tratta di chiedere a Israele di accettare un enorme compromesso. Ma non c’era, nel discorso, nessuna analoga richiesta di compromesso dalla parte palestinese. Certo, Kerry ha detto che gli Stati Uniti hanno esortato innumerevoli volte i palestinesi a fermare il terrorismo e l’istigazione alla violenza, e a dotarsi di buone istituzioni di governo. Ma questi non sono compromessi. Un compromesso, per i palestinesi, sarebbe riconoscere che, visto tutto ciò che succede in Medio Oriente, Israele deve mantenere il controllo di sicurezza sulla Valle del Giordano. Un compromesso, per i palestinesi, sarebbe affermare che rinunciano al cosiddetto “diritto al ritorno” e che riconoscono Israele come stato nazionale del popolo ebraico. “Il riconoscimento di Israele come stato ebraico è la posizione degli Stati Uniti da anni – ha detto Kerry – E sulla base delle mie conversazioni di questi ultimi mesi, sono assolutamente convinto che anche molti altri sono disposti ad accettarlo a condizione che si riconosca anche la necessità di uno stato palestinese”. Dunque, ecco l’accordo: Israele si ritira, sradica gli insediamenti e di conseguenza, sulla base delle recenti conversazione di Kerry, “molti altri” potrebbero essere disposti a riconoscere a Israele il diritto di esistere come stato ebraico. Insomma, il genere di scommessa che non è destinata a suscitare grande entusiasmo fra gli israeliani, che sono quelli che dovranno poi convivere con le conseguenze.

Per tutta la sua carriera sia come senatore sia come Segretario di stato, i discorsi di Kerry su Israele hanno sempre dato all’ascoltatore la sensazione che lui sappia meglio degli stessi israeliani cosa è bene per Israele, per il suo futuro, per la sua sicurezza. Il suo discorso di mercoledì sera era perfettamente in linea con questo atteggiamento paternalistico». (Da: Jerusalem Post, 28.12.16)

Elliott Abrams

Scrive Elliott Abrams: «La risoluzione 2334 approvata dal Consiglio di Sicurezza premia l’Olp e l’Autorità Palestinese per essersi rifiutati di negoziare con Israele e fa propria la loro tattica di sostituire i fattivi negoziati diretti con inutili psicodrammi alle Nazioni Unite. Rifiutandosi di porre il veto a quella risoluzione, l’amministrazione Obama ha abbandonato la prassi americana di difendere Israele da quelli che l’ambasciatrice degli Stati Uniti all’Onu Jeane Kirkpatrick chiamava “gli sciacalli delle Nazioni Unite”. Nei giorni scorsi, i portavoce dell’amministrazione hanno cercato di difendere questo abbandono di Israele in termini decisamente orwelliani: l’abbiamo fatto per “aiutare” Israele e per “difenderlo”; noi più del suo governo eletto (e dei suoi principali partiti di opposizione) sappiamo cosa è meglio per i suoi interessi; abbiamo abbandonato Israele perché siamo suoi amici. Questi sono i principali temi cui ha fatto ricorso il consigliere del presidente Ben Rhodes parlando coi giornalisti: la risoluzione “riflette l’opinione internazionale” sugli insediamenti ed è “coerente con la tradizionale posizione politica bi-partisan degli Stati Uniti sugli insediamenti”, i quali “sono cresciuti a ritmo accelerato negli ultimi anni” compromettendo “la fattibilità della soluzione a due stati”; infine, “abbiamo esaurito ogni possibile sforzo per perseguire una soluzione a due stati attraverso negoziati diretti, con uno sforzo lungo ed esaustivo del Segretario di stato John Kerry: abbiamo fatto tutto il possibile per portare le parti al tavolo del negoziato”.

Di fronte a questi argomenti si può fare quel gioco per bambini: trova gli errori. E’ vero, la risoluzione “riflette l’opinione internazionale” sugli insediamenti, e li definisce illegali. Ma è proprio questo il punto. Finora la posizione degli Stati Uniti era che gli insediamenti fossero problematici, controproducenti, ma non “illegali”. Dunque, non è vero che risoluzione “è coerente con la tradizionale posizione politica bi-partisan degli Stati Uniti”. Circa la crescita degli insediamenti, con Uri Sadot ho personalmente pubblicato le statistiche su Foreign Policy e la conclusione è che i numeri dimostrano che né l’equilibrio di popolazione tra ebrei e palestinesi, né le opzioni per una spartizione della Cisgiordania sono sostanzialmente cambiati. La popolazione israeliana negli insediamenti cresce, ma ad un tasso che riflette perlopiù le nascite nelle famiglie che già vi vivono e non una massiccia immigrazione di nuovi coloni. In realtà, qualunque cosa ne dicano Rhodes e l’Onu, la crescita degli insediamenti non è accelerata in maniera significativa dal 2011 (ultima volta che Washington pose il veto su una risoluzione contro gli insediamenti).

Ma l’argomento più falso è quello sul fallimento dei negoziati. E’ vero che in tutti questi anni gli sforzi di Obama e Kerry non hanno avuto successo, ma è accaduto perché i palestinesi si sono rifiutati di sedere al tavolo dei negoziati, anche quando (2009/10) Israele decretò il congelamento completo di tutte le attività edilizie negli insediamenti per dieci mesi. Netanyahu non è particolarmente popolare fra i coloni proprio perché ha contenuto la crescita degli insediamenti e ne ha persino decretato il blocco totale per quei dieci mesi. All’epoca, il Segretario di stato Hillary Clinton ebbe a dire: “Quello che Netanyahu ha offerto concretamente in fatto di restrizioni alla politica di insediamento è senza precedenti”. Martin Indyk, uno degli inviati del presidente Barack Obama, disse ad Ha’aretz nel 2014: “Netanyahu si è spostato nella zona di un possibile accordo, l’ho visto sudare sette camicie per trovare il modo di arrivare a un accordo”. Secondo Indyk, fu il presidente dell’Autorità Palestinese Abu Mazen che non mostrò nessuna flessibilità: “Abbiamo cercato di spostare Abu Mazen nella zona di un possibile accordo, ma siamo rimasti sorpresi nel vedere quanto fosse chiuso”. Dunque, cosa si fa quando i palestinesi si rifiutano di negoziare? Si punisce Israele. Ci si unisce agli sciacalli dell’Onu. Si adotta la tattica dell’Olp di mobbizzare Israele alle Nazioni Unite anziché promuovere negoziati faccia-a-faccia». (Da: Israel HaYom, 28.12.16)

Gregg Roman

Scrive Gregg Roman: «La posizione dell’amministrazione Obama si basa su tre presupposti. Il primo, come ha detto John Kerry nel suo discorso, è che il congelamento degli insediamenti israeliani rende più facile per i negoziatori palestinesi scendere a compromessi al tavolo dei negoziati, perché – si sostiene – si attenua il sospetto dei palestinesi che Israele non intenda fare concessioni territoriali al tavolo delle trattative. Ma il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha già messo alla prova questa ipotesi nel novembre 2009 quando, sotto la spinta dell’amministrazione Obama, decretò una moratoria di dieci mesi sulle attività edilizie in tutti gli insediamenti (Gerusalemme esclusa). Cosa accadde? Il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) si rifiutò di riprendere i colloqui fino alla fine della moratoria e rimase intransigente esattamente quanto prima. Ciò che impedisce ai palestinesi di scendere a compromessi non è il sospetto sulle recondite intenzioni degli israeliani: è la fondamentale mancanza di volontà dei dirigenti palestinesi di accettare l’esistenza di uno stato ebraico accanto al loro. Non basta. Si potrebbe persino sostenere che è vero il contrario: è la crescita negli insediamenti che rende più facile il compito ai moderati palestinesi favorevoli al compromesso, perché mette in evidenza come lo status quo sia insostenibile e alla lunga dannoso per le aspirazioni nazionali palestinesi.

Il secondo assunto dell’amministrazione Obama è che la pressione esercitata dalla comunità internazionale e dagli Stati Uniti porterà al congelamento degli insediamenti che si suppone tanto auspicabile. Tuttavia, facendo cadere ogni distinzione fra – da una parte – Gerusalemme e le città israeliane poco al di là della ex linea armistiziale (ma all’interno della barriera di sicurezza), quelle che nessun grande partito politico israeliano intende abbandonare, e – dall’altra – i restanti insediamenti, quelli che la maggior parte degli israeliani sono disposti ad abbandonare, questa pressione politica ottiene esattamente il risultato contrario: pretendere dagli israeliani che riconoscano come “territorio palestinese occupato” aree come il quartiere ebraico di Gerusalemme vecchia o il Muro del Pianto significa convincerli definitivamente che hanno ogni ragione di respingere le pressioni internazionali.

Infine, quand’anche fosse vero che un congelamento degli insediamenti faciliterebbe i negoziati coi palestinesi (ma si è visto che non è così) e che la pressione internazionale porterebbe i leader israeliani ad accettare il congelamento (e non sta affatto accadendo), in ogni caso tutto questo verrebbe annullato dal formidabile ostacolo creato con la decisione di dichiarare “illegale” qualunque presenza o rivendicazione israeliana al di là della ex linea armistiziale del periodo ’49-’67. Come potranno i dirigenti palestinesi mostrarsi flessibili e scendere a compromessi dopo che l’Onu ha convalidato le loro richieste massimaliste e che gli Stati Uniti le hanno avallate? Quale leader palestinese potrà mai firmare la cessione di aree nelle quali Washington e il Consiglio di Sicurezza hanno decretato che la presenza di ebrei è illecita? Ecco come si rende impossibile un realistico negoziato». (Da: Middle East Forum, 28.12.16)