Da 60 anni sulla carta geografica

Il maggior successo di Israele in sessant’anni di indipendenza è essere sopravvissuto

Da un articolo di Gerald M. Steinberg

image_2103Il maggior successo di Israele in sessant’anni di indipendenza è quello di essere sopravvissuto: essere rimasto sulla carta geografica come stato sovrano, con uno status eguale alle altre nazioni del mondo. I tanti successi in campo economico e culturale hanno sicuramente contribuito a garantire questa sopravvivenza, sebbene il desiderio di pace con i nostri vicini rimanga in gran parte frustrato. Ma il vero trionfo è che siamo qui.
L’obiettivo primario del sionismo era e rimane la ricostituzione della sovranità e dell’autodeterminazione del popolo ebraico nella sua terra. Oltre alla realizzazione del sogno, vecchio di duemila anni, del ritorno in Terra d’Israele, c’è che la storia di persecuzioni (specie nell’Europa cristiana), espulsioni e pogrom culminata nella Shoà ha mostrato i pericoli legati alla dipendenza da altri. Nel mondo moderno, il popolo ebraico poteva sopravvivere, sia fisicamente che culturalmente, soltanto riguadagnando e preservando l’indipendenza nazionale, su un piede di eguaglianza con le nazioni cristiane d’Europa, le nazioni islamiche del Medio Oriente, e altre nazioni in tutto il mondo. L’alternativa era scomparire, insieme alla ricchezza della lingua ebraica e a un patrimonio di quattromila anni di storia e tradizioni ebraiche.
Sessant’anni fa, mentre gli inglesi si apprestavano ad andarsene e gli eserciti arabi pianificavano la loro invasione, la maggior parte dei politici e degli osservatori prevedeva un disastro per il nascente stato degli ebrei. Leader arabi come Azzam Pasha, che era segretario generale della Lega Araba, proclamavano: “Questa sarà una guerra di sterminio, un grande massacro di cui si parlerà come dei massacri mongoli e crociati”. Ufficiali e diplomatici americani ed europei osservavano il vantaggio apparentemente soverchiante degli arabi in fatto di armi, dimensioni della popolazione e del territorio, e esortavano gli ebrei a rinunciare alla dichiarazione di indipendenza.
Contro tutte queste previsioni, la tenacia e la motivazione degli israeliani, aiutati dalla profonda immedesimazione e dall’appoggio della Diaspora, garantirono l’indipendenza dello stato degli ebrei.
Per il “fronte del rifiuto” arabo e musulmano (compresi gli iraniani, che si mettono alla testa di questo gruppo), l’idea di una sovranità ebraica nel “Medio Oriente islamico” era e rimane inaccettabile. Questo scontro di fondo – e non le divergenze sui confini, sugli insediamenti post-1967 o sull’occupazione – è quello che sta al cuore del conflitto, e che ha portato a guerre d’aggressione e attentati stragisti contro Israele.
Il rifiuto si esprime spesso sottoforma di proposte per la soluzione “un stato unico”, con la cancellazione dei simboli ebraici dello stato israeliano (compresi stemma e bandiera), e la pretesa che milioni di arabi, che si attribuiscono lo status di profughi del 1948, esercitino un “diritto al ritorno” creando in questo modo un’immediata maggioranza araba dentro Israele.
Alla stessa stregua, anche il tentativo di negare i quattromila anni di storia della Gerusalemme ebraica, formulato nei libri di testo scolastici palestinesi e dallo stesso Yasser Arafat al presidente Clinton durante il vertice di Camp David nel 2000, riflette lo sforzo di rovesciare lo status di Israele quale stato ebraico indipendente.
Le campagne in Europa occidentale e altrove che utilizzano etichette come “apartheid” o “razzista” in riferimento a Israele e al sionismo, e la strategia volta a boicottare, disinvestire e imporre sanzioni, fanno parte degli sforzi intesi a negare la legittimità della sovranità ebraica.
Lo stesso vale per le condanne generalizzate di ogni risposta israeliana agli attacchi del terrorismo, e il tentativo di negare ad Israele il diritto all’autodifesa riconosciuto a tutte le nazioni sovrane e indipendenti. Similmente, le false accuse di “crimini di guerra” e di “punizioni collettive” vengono costantemente usate per demonizzare Israele alle Nazioni Unite, e da organizzazioni non-governative che sfruttano la retorica della moralità per demonizzare Israele. Questo era anche il principale obiettivo della famigerata Conferenza Onu di Durban del 2001 e della Conferenza di Verifica (Durban Due) prevista per il 2009 sotto la guida di Iran, Libia e Cuba.
La delegittimazione e la demonizzazione del sionismo e la faziosità che prende di mira Israele in modo speciale, cancellando sistematicamente il contesto del terrorismo palestinese e di altre minacce e attacchi violenti con cui Israele deve fare i conti, sono diventate la forma moderna dell’antisemitismo. In moltissimi casi, la martellante propaganda anti-israeliana ripropone temi classici dell’antiebraismo cristiano, comprese le calunnie sull’uso diabolico del sangue.
Nonostante questa intensa e perdurante ostilità, la capacità di Israele non solo di sopravvivere, ma anche di svilupparsi e prosperare, è la vicenda principale che contraddistingue questi sessant’anni di indipendenza.
Con sei milioni di cittadini ebrei in Israele, dieci volte di più che nel 1948, la lingua ebraica è rifiorita e la cultura ebraica si è preservata ed evoluta. Intanto, i progressi verso la piena accettazione di una sovranità ebraica eguale fra le nazioni del mondo sono penosamente lenti, e la lotta continua ad essere, come in passato, estenuante. Ma non c’è scelta: per il popolo ebraico e per Israele non vi sono strade alternative.

(Da: Jerusalem Post, 5.05.08)

Nella foto in alto: Festeggiamenti in Israele nel primo anniversario dell’indipendenza.