Da cosa nasce il nuovo pragmatismo di certi governanti arabi?

Il sostegno alla causa palestinese tende a passare in secondo piano quando è in gioco il loro potere. Ma ciò non significa che diventeranno alleati di Israele

Di Moshe Arens

Moshe Arens, autore di questo articolo

Chi sono questi pragmatici governanti arabi che negli ultimi mesi hanno suscitato tante aspettative per la formazione di un fronte unito contro il terrorismo e per un aiuto alla risoluzione del conflitto israelo-palestinese? Li si può riconoscere dal fatto che hanno “moderato” la loro tradizionale ostilità verso Israele.

La settimana scorsa a Riad sono stati ad ascoltare attentamente la traduzione simultanea del discorso  con cui il presidente degli Stati Uniti Donald Trump li esortava a formare un fronte unito contro il terrorismo e a sbarazzarsi dei terroristi che stanno in mezzo a loro. Sono governanti autocratici o dittatoriali preoccupati per la loro sopravvivenza di fronte alla crescente influenza iraniana e al terrorismo, in gran parte promosso o sostenuto dalla Repubblica Islamica.

A quanto pare, i rischi per la propria sopravvivenza aiutano a concentrarsi sulle priorità. Il loro sostegno alla causa palestinese tende a passare in secondo piano rispetto alle misure che ritengono necessario adottate per garantirsi la sopravvivenza, e tra queste la ricerca di potenziali alleati. Israele, anch’esso minacciato dall’Iran ed esperto suo malgrado di lotta al terrorismo, viene visto come uno di questi possibili alleati.

I governanti di Egitto e Giordania, dell’Arabia Saudita e dei paesi del Golfo percepiscono fortemente questa minaccia. Il presidente egiziano Abdel-Fattah al-Sissi è impegnato quotidianamente nella lotta contro gruppi terroristi che tentano di destabilizzare il suo potere. Non è semplicemente disposto a farsi aiutare da Israele: egli ha bisogno dell’assistenza israeliana. La cooperazione militare e di intelligence tra Egitto e Israele non è mai stata così stretta come oggi. Fa premio persino sulla retorica di al-Sissi circa la causa palestinese. Re Abdullah II di Giordania si trova ad affrontare una minaccia simile e desidera collaborare con Israele per combatterla, pur continuando a fare pubbliche dichiarazioni a favore della causa palestinese. E i governanti dell’Arabia Saudita, temendo i missili balistici e le possibili armi nucleari iraniane, e avendo a che fare con la ribellione Houthi sostenuta dall’Iran nello Yemen, vedono in Israele un potenziale alleato. Quando è in gioco la sopravvivenza, queste considerazioni hanno la precedenza sul sostegno alla causa palestinese. Tutto ciò rende questi governanti più pragmatici e più moderati? Non proprio. Essi stanno semplicemente privilegiando il loro interesse più immediato, la loro sopravvivenza.

19 giugno 2016. Il presidente palestinese Abu Mazen fa omaggio al re saudita Salman di una copia incorniciata del “Palestine Post” del 13 agosto 1935 con la notizia di una visita dell’emiro Saud nella Palestina Mandataria. Il fatto curioso è che il “Palestine Post” era un giornale ebraico e sionista, precursore dell’attuale “Jerusalem Post”. Domanda: come mai Abu Mzen non ha potuto trovare un quotidiano non sionista con “Palestina” nel titolo? (clicca per ingrandire)

Come si inseriscono i palestinesi in questo cambiamento del mondo mediorientale? Naturalmente se il conflitto israelo-palestinese dovesse risolversi, le cose sarebbero più facili per tutti coloro che sono coinvolti in questo cambiamento. Ma nel migliore dei casi, ci vorrà tempo. Molto tempo. Intanto i barbari sono alle porte. E se proprio i governanti arabi “pragmatici” aiutassero a risolvere il conflitto israelo-palestinese? A prima vista la cosa suona bene, ma non è molto probabile. Sembrano essere d’accordo con Trump quando definisce Hezbollah e Hamas organizzazioni terroristiche: entrambe organizzazioni che sostengono di combattere per la causa palestinese. Ma chiedere ai palestinesi di sbarazzarsi dei terroristi in mezzo a loro è quasi come chiedere loro di sbarazzarsi di se stessi. Sono loro che hanno portato al mondo la versione moderna del terrorismo: l’uccisione indiscriminata di civili, l’esplosione di arerei di linea, il dirottamento di aerei civili, l’uccisione di atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco del 1972, gli attentati esplosivi nei ristoranti, fino ai pedoni deliberatamente investiti con auto e camion. Possono davvero diventare degli alleati nella lotta contro il terrorismo mentre celebrano come eroi i terroristi processati e condannati, e premiano finanziariamente le loro famiglie?

Vi sono dei palestinesi, come il presidente Mahmoud Abbas (Abu Mazen), che hanno capito che il terrorismo palestinese ha solo danneggiato la causa palestinese e che è stata l’ondata di terrorismo durante la seconda intifada, costata la vita a più di mille civili israeliani, che ha riportato il governo militare israeliana in Cisgiordania. Ma il rifiuto del terrorismo non è ancora entrato a far parte dell’educazione dei giovani palestinesi. Abu Mazen non ci è riuscito. Non sembra in grado di diventare vero partner in una guerra contro il terrorismo, ed è difficile credere che i governatori arabi “pragmatici” possano farlo aderire a una coalizione contro il terrorismo. Tutto il terrorismo.

(Da: Ha’aretz, 29.5.17)