Da Pio X a papa Wojtyla

Breve scheda dei rapporti Vaticano-Israele al termine del pontificato di Giovanni Paolo II

M. Paganoni per Nes n. 4, anno 17 - aprile 2005

image_657Ci sono voluti 90 anni per passare dal “non possumus” di Pio X, al riconoscimento vaticano dello Stato di Israele (30.12.93). “Come potremmo consentire che gli ebrei tornino nella Terra Santa, senza rinunciare ai nostri supremi principi?”, spiegava infatti nel 1904 il card. Merry del Val a Theodor Herzl. Quattro decenni dopo, al culmine della Shoà, il Vaticano trovava ancora il tempo di scrivere lettere a Londra e a Washington contro l’ipotesi di una homeland ebraica in Palestina.
Il rapporto della Chiesa con gli ebrei non si evolve in parallelo a quello con il sionismo e l’indipendenza ebraica. Nel gennaio 1964, mentre si prepara la Nostra Aetate, Paolo VI pellegrino in Terra Santa sta ben attento a non pronunciare mai il nome di Israele, e saluta il presidente dello stato con un telegramma indirizzato al “signor Shazar, Tel Aviv”. Nel 1976 l’Osservatore Romano giunge a pubblicare un documento libico-vaticano che fa propria la famigerata risoluzione Onu “sionismo uguale razzismo”. L’atteggiamento verso Israele della Chiesa (e non solo delle alte gerarchie) resta per anni improntato a enorme diffidenza, spesso a vera ostilità venata di antico antigiudaismo. Come in altri ambiti politico-culturali, sembra quasi che Israele serva per dare libero sfogo a sentimenti che non si possono più esprimere verso gli ebrei.
Quando Wojtyla è fatto papa, evidentemente in vetta ai suoi pensieri sta il dramma dell’antisemitismo. Ma ci vorranno 22 anni prima che riesca ad andare a Gerusalemme. Paradossalmente, per Giovanni Paolo II sarà più agevole affrontare il nodo storico e dottrinario del rapporto cristiani-ebrei, che la questione “secondaria” delle relazioni diplomatiche tra Santa Sede e Israele: più semplice chiudere con l’antiebraismo teologico che con l’antisionismo.
Wojtyla spinge in questa direzione. Poco dopo la visita alla sinagoga di Roma, afferma già che gli ebrei “hanno diritto a una patria, come ogni altra nazione, secondo il diritto internazionale”.E appena Rabin e Arafat si stringono la mano alla Casa Bianca (13.09.93), fa concludere le trattative e firmare il riconoscimento ufficiale. L’apice viene toccato con il Giubileo 2000. “L’immagine del papa che ascolta l’Hatikva sotto la bandiera israeliana, alla presenza del presidente, del governo e di un picchetto militare – scrive il Jerusalem Post (8.04.05) – manda in frantumi l’idea millenaria che la rivelazione cristiana fosse impossibile senza l’umiliazione degli ebrei e la condanna ad errare per sempre: un’immagine che nessun ripensamento futuro potrà cancellare”.
Ma i nodi restano: lo status di Gerusalemme, l’antisionismo degli arabi cristiani in Medio Oriente, il delicato rapporto con l’islam. Mentre il patriarca latino Sabbah si appiattisce su posizioni oltranziste, negli anni dell’intifada Al Aqsa e del dopo 11 settembre Wojtyla, pur condannando il terrorismo, sembra aver smarrito quella lucidità storico-politica che in altri tempi lo aveva visto schierato con forza contro le strategie totalitarie. Fino al novembre 2003, quando le stragi di ebrei israeliani non gli impediscono di condannare la barriera difensiva con la celebre frase: “La Terra Santa non ha bisogno di muri, ma di ponti”. Un miracolo di incomprensione.

Nella foto in alto: Karol Wojtyla al Muro Occidentale (“del pianto”) – Gerusalemme, marzo 2000.

Vedi anche: NES maggio 2001
Antisemitismo arabo: i silenzi del Papa e dell’occidente (ovvero: è più facile chiedere perdono per la quarta crociata di sette secoli fa, piuttosto che opporsi qui e oggi all’odio e al fanatismo)

http://israele.net/prec_website/nesarret/051papa.html