Dalla guerra dei sei giorni ad oggi

Sei giorni, cinquant’anni fa. Dodicesimo video: come la guerra del '67 ha segnato gli ultimi cinquant'anni e condiziona ancora oggi la ricerca di una vera pace

Video 12: alla ricerca di una strada per la pace

Traduzione. Alla vigilia della guerra dei sei giorni del giugno 1967 più di 200mila soldati e mille carri armati arabi erano schierati ai confini di Israele, minacciando di distruggere lo stato ebraico. Durante la guerra Israele respinse gli eserciti di Egitto, Giordania e Siria e conquistò territori che erano stati usati per minacciare e attaccare Israele. Subito dopo la guerra, Israele fece sapere che avrebbe ceduto territori conquistati in cambio della pace. Ma i paesi arabi si rifiutarono di riconoscere o di negoziare con lo stato di Israele.

Cinque mesi dopo la guerra dei sei giorni, le Nazioni Unite approvarono la risoluzione 242 che chiedeva a Israele di ritirarsi da territori conquistati, senza specificare quanto, e chiedeva al contempo ai suoi vicini di porre fine all’aggressione contro Israele e di riconoscere il suo diritto a vivere in pace entro confini sicuri e riconosciuti. Questa divenne nota come la formula “terra in cambio di pace”.  In cambio della pace Israele era disposto a cedere territori appena conquistati nel Sinai, nella striscia di Gaza, sulle alture del Golan e anche in Cisgiordania, nonostante il suo significato storico per il popolo ebraico. Ancora una volta gli stati arabi si rifiutarono di negoziare la pace.

Tuttavia, dodici anni dopo, a seguito di un’altra guerra lanciata senza successo da alcuni stati arabi, e dopo molte tornate diplomatiche, il presidente egiziano Anwar Sadat firmò un trattato di pace con Israele. In cambio della pace, Israele si ritirò dalla penisola del Sinai: quasi il 90% delle aree che aveva conquistato nella guerra dei sei giorni. Quindici anni dopo, nel 1994, Israele firmò un trattato di pace anche con la Giordania.

Per gli arabi che vivono in Cisgiordania e a Gaza gli scorsi cinquant’anni sono stati difficili. Benché non sia mai esistito uno stato palestinese, il sogno di realizzarlo non ha fatto che crescere durante questo periodo. Tuttavia, per decenni dopo la guerra dei sei giorni i leader palestinesi continuarono a rifiutarsi di vivere accanto a Israele. Ritenevano che appartenesse a loro tutta la terra dal fiume Giordano al mar Mediterraneo, che comprende l’intero Israele. Le speranze aumentarono negli anni ’90 quando il processo di pace di Oslo sembrò offrire una via negoziale verso uno stato palestinese e la pace con Israele. Alcuni progressi importanti furono fatti con l’istituzione di un governo elettivo per i palestinesi, l’Autorità Palestinese, che governa ancora oggi la vita quotidiana della maggior parte dei palestinesi.

Il processo di Oslo portò al vertice di Camp David del 2000 dove Israele offrì all’Autorità Palestinese una soluzione a due stati. Se i palestinesi avessero accettato quella proposta, uno stato palestinese sarebbe stato creato in Cisgiordania e a Gaza, con Gerusalemme est come sua capitale. Ma le speranze di pace vennero infrante ancora una volta con l’intifada palestinese dei primi anni 2000, quando terroristi e attentatori suicidi palestinesi attaccarono gli israeliani nei ristoranti e sugli autobus uccidendo più di 700 civili israeliani.

Nel 2005, in un altro tentativo di porre fine alle violenze e favorire la pace, Israele ritirò unilateralmente dalla striscia di Gaza tutte le forze israeliane e le comunità ebraiche. Questo comportò lo sgombero dalle loro case di circa 8.000 ebrei, un’operazione che fu molto penosa per numerosi israeliani. Ma meno di due anni più tardi il gruppo terrorista Hamas si impadronì della striscia di Gaza con un golpe militare e da allora ha sparato più di 12.000 razzi e colpi di mortaio sulle comunità israeliane. Questa esperienza ha dissuaso la maggior parte degli israeliani dal voler fare ulteriori ritiri unilaterali.

Reagendo a questi attacchi terroristici, Israele ha adottato delle misure per proteggere i suoi cittadini con barriere di sicurezza, posti controllo, arresti e altri provvedimenti che hanno fatto diminuire gli attentati. Gli israeliani sono consapevoli che tutto questo ha comportato un prezzo per la grande maggioranza dei palestinesi, che non sono coinvolti nel terrorismo.

In Israele si continua a discutere su quale sia il modo migliore per tutelare i diritti umani e fermare il terrorismo. Oggi la maggior parte degli israeliani dice di preferire una soluzione a due stati per due popoli. Per la maggior parte sono disposti a fare passi molti difficili in nome di una vera pace, come cedere ai palestinesi il controllo su gran parte della Cisgiordania e porre fine a quella che alcuni chiamano “l’occupazione”. Per la maggior parte sono anche disposti a sradicare molte delle comunità ebraiche, o insediamenti, in quella Cisgiordania nota anche coi nomi biblici di Giudea e Samaria: una regione che ha un profondo significato storico e religioso per molti ebrei in tutto il mondo.

Allo stesso tempo, tuttavia, molti israeliani nutrono seri dubbi che l’attuale dirigenza palestinese accetterà mai di vivere accanto allo stato ebraico d’Israele. Molti israeliani additano i continui atti con cui la dirigenza palestinese rende onore e celebra i terroristi palestinesi. Additano anche i programmi scolastici delle scuole di Hamas e dell’Autorità Palestinese che negano l’esistenza di Israele. Questi programmi scolastici si concentrano sul ritorno in una patria esclusivamente palestinese al posto di Israele.

C’è ampio consenso in Israele sul fatto che la profondità strategica conseguita nella guerra dei sei giorni, una legittima guerra di difesa, non deve essere ceduta in mancanza di un forte accordo di pace: un accordo di pace che ponga fine al conflitto coi palestinesi e coi paesi arabi e preservi Israele sia come democrazia, sia come lo stato nazionale del popolo ebraico.

Oggi, in questo Medio Oriente caotico e sempre più estremista, Israele rimane la sola democrazia stabile, con una fiorente popolazione ebraica, musulmana e cristiana. Gli israeliani sono fieri della loro cultura vibrante e variegata, della loro passione per riformare e migliorare il mondo, dei loro tanti successi nel campo della medicina, della scienza, della tecnologia, delle arti e soprattutto del loro ruolo nel portare avanti il patrimonio di tremila anni del popolo ebraico.

(Da: Jerusalem U, 14.6.17)

Video 11: primo giorno di dopoguerra (11 giugno 1967)