Dalla rivoluzione al feudalesimo

La successione famigliare nei regimi arabi è la logica conseguenza del sistema di potere autocratico

di Ammar Abdulhamid

image_2333Il fenomeno della successione familiare in regimi non monarchici è sempre più presente nel mondo arabo – si pensi a paesi come Siria, Libia ed Egitto, dove l’ideologia ufficiale dovrebbe teoricamente precludere tale possibilità – e continua a sconcertare gli analisti.
D’altra parte, cos’altro potresti fare se sei un dittatore arabo salito al potere con un colpo di stato organizzato da un gruppo di ufficiali delle forze armate che non solo appartenevano allo stesso movimento ideologico ma anche, per lo più, alla stessa classe sociale e, cosa ancora più rilevante, alla stessa origine geografica nel paese, e forse anche alla stessa setta religiosa, o tribù, o clan?
Cos’altro potresti fare quando hai già trascorso decenni al potere sovraintendendo personalmente alla dilatazione del sistema clientelare su cui fai affidamento per mantenere la presa sul potere, restringendo sempre più la cerchia dei tuoi collaboratori di fiducia fino a comprendere quasi soltanto i tuoi parenti più stretti e gli amici più fidati?
Cos’altro potresti fare quando la tua vittoria è stata così totale che sei diventato il dominatore incontrastato del paese, e hai ucciso, esiliato e/o fatto scomparire tutti i reali o potenziali rivali attorno a te, e ti ritrovi circondato soltanto da “yes men” totalmente disposti ad accettare la tua autorità, ma che non accetterebbero mai di sottomettersi a nessuno dei loro pari? Dopotutto tu stesso hai creato questa situazione, seminando così tanta discordia fra loro nel continuo sforzo di impedire qualunque potenziale rovesciamento.
Cos’altro potresti fare quando senti avvicinarsi l’ora fatale e tutti coloro che ti sono attorno si aspettano che tu, e soltanto tu, decida quale debba essere la strada da seguire per garantire la sopravvivenza dell’edificio che ha costruito?
Cos’altro potresti fare quando sei riuscito a devastare la società civile del tuo paese così totalmente che l’opinione pubblica non conta più nulla? Nel migliore dei casi le piazze resteranno tranquille durante il processo di successione (come è avvenuto in Siria e come probabilmente avverrà in Libia); nel peggiore, vi sarà qualche tumulto circoscritto senza serie minacce alla stabilità dell’ordine che hai creato (come ci si attende che accada in Egitto).
In effetti, a cosa si riduce tutta questa faccenda della successione se si tiene conto di tutti questi elementi? In fondo, che altre scelte rimangono a un dittatore arabo?
Non che l’idea di consacrare il figlio maggiore come proprio futuro successore sia poi così aborrita dal dittatore in questione. Dopo tutto, se una cosa hanno dimostrato gli ultimi decenni, è che nel mondo arabo gli auto-proclamati “messia della modernizzazione” non sono mai poi così “moderni” come pensavano e sostenevano di essere. In verità la loro avidità e brama di potere si è sempre combinata con l’eterno fascino del patriarcato, garantendo la loro rapida metamorfosi in campioni della controriforma e del ritorno al feudalesimo.
Per cui il ricorso alla successione famigliare non-monarchica nel mondo arabo non è che il logico esito sbocco di un’era che ha visto fallimenti e imbrogli sociali, politici ed economici ad ogni livello di governo.
Nel frattempo le potenze nel resto del mondo sono troppo impegnate a manipolare questa situazione per massimizzare i loro vantaggi nei vari giochi di alleanze e contro-alleanze – il “grande gioco”, la guerra fredda, la pressione a casaccio per un nuovo ordine mondiale e, più di recente, la guerra globale al terrorismo – per occuparsi delle potenziali conseguenze a lungo termine delle loro attività sui popoli della regione.
Eppure la situazione potrebbe non essere così desolata come sembra in questa fase. Giacché, facendo tornare così indietro l’orologio, i regimi arabi in questione si sono spogliati di tutte le loro foglie di fico e delle loro maschere, e hanno inavvertitamente ricreato quella stessa situazione potenzialmente rivoluzionaria che esisteva un tempo e che loro stessi a un certo punto hanno sfruttato per proiettarsi al potere. In questo modo hanno spianato la strada all’emergere di nuovi “profeti” del cambiamento, alcuni dei quali potrebbero anche risultare genuini e capaci.
Ma i nuovi “profeti” in Medio Oriente hanno solo tre possibili opzioni:
– entrare nei ranghi dei vari regimi e accontentarsi di piccole, insignificanti “riforme” che non saranno mai sufficienti per appagare una coscienza realmente recalcitrante, ma che nondimeno possono garantire una certa sicurezza e forse anche un po’ di gloria;
– arruolarsi in un gruppo terrorista e procurarsi la rapida scarica adrenalinica che tali imprese malauguratamente promettono;
– oppure decidere di mettersi alla testa di un’autentica rivoluzione popolare che non sia un semplice complotto di palazzo, visto come sono falliti in passato i complotti di palazzo.
In quanto arabo dissidente e attivista per la democrazia, ho fatto da tempo la mia scelta. Ecco perché mi sembra abbastanza appropriato concludere dicendo: “ben venga la rivoluzione”.

(Da: bitterlemons-international.org, Jerusalem Post, 27-30.11.08)

Nella foto in alto: l’autore di questo articolo, Ammar Abdulhamid, dissidente siriano attualmente fuoriuscito negli Stati Uniti. Ha fondato, fra l’altro, la Tharwa Foundation, un’organizzazione non governativa dedicate a promuovere progressi democratici e migliori relazioni inter-comunitarie attraverso le frontiere del Medio Oriente e del Nord Africa