Dedicato a quelli che “è tutta colpa dell’intransigenza di Israele”

Un modesto ventennale per ricordare che non è la disperazione che provoca il terrorismo, ma il terrorismo che provoca disperazione

Di Marco Paganoni

Il primo dei due attentati sl 1996 sull'autobus 18, a Gerusalemme

Gerusalemme, 25 febbraio 1996: il primo dei due attentati consecutivi sull’autobus 18

Era il mese di marzo del 1996: vent’anni fa. Il processo di pace di Oslo era stato lanciato da due anni e mezzo con la celebre stretta di mano Rabin-Arafat alla Casa Bianca e aveva già prodotto – nonostante i primi tragici attentati suicidi su autobus israeliani – l’accordo per il ritiro dalle città di Gaza e Gerico, l’accordo economico di Parigi, soprattutto l’Accordo ad interim del 28 settembre ‘95, quello che ha dato vita all’Autorità Palestinese conferendo agli arabi palestinesi per la prima volta nella storia una forma di autogoverno. Il 4 novembre Yitzhak Rabin era stato assassinato da un’estremista israeliano, ma il processo di pace non si era fermato. A dicembre Shimon Peres, subentrato nella carica di primo ministro, aveva puntualmente attuato il previsto ritiro delle Forze di Difesa israeliane da tutte le maggiori città palestinesi di Cisgiordania. A gennaio si erano tenute le prime elezioni politiche palestinesi. Ai primi di febbraio, in un’atmosfera profondamente scossa per l’uccisione di Rabin ma anche piena di speranze per le prospettive del processo diplomatico, Peres aveva deciso di andare alle elezioni: voleva un chiaro mandato per completare il processo di pace.

A quel punto erano tornate le bombe. Inesorabili, micidiali, a raffica. Ad Askelon, 13 morti. A Tel Aviv, 14 morti. Una domenica mattina, sull’autobus della linea 18 di Gerusalemme: 12 morti. La domenica successiva, su quello stesso autobus: altri 20 morti. Fu allora che un gruppo di amici italiani ebbe un’idea: la terza domenica, su quell’autobus ci saremo anche noi. Per solidarietà.

Una cosa ci era perfettamente chiara: per fare la pace, gli israeliani sono costretti ad assumersi dei rischi enormi, puntualmente sfruttati dai loro nemici. Ammesso e non concesso che siano rischi sostenibili, se li possono assumere solo se circondati dal sostegno, dalla solidarietà, dal calore dalla comunità internazionale; solo se il mondo sa affermare e dimostrare coi fatti: siamo con voi. Esattamente il contrario delle pressioni, delle condanne e dell’isolamento che tanta parte del mondo (pelosissimi “amici” compresi) crede di dover usare per “convincere” gli israeliani a fare la pace.

Nel nostro piccolo, ci provammo. L’improvvisata delegazione partì dall’Italia e salì su quell’autobus di Gerusalemme. Non sapremo mai quanto sarebbe potuta essere diversa, e migliore, la storia del processo di pace se altrettanta solidarietà l’avessero coerentemente e convintamente dimostrata – allora e negli anni successivi – gli stati, gli organismi internazionali, i mass-media, gli intellettuali, gli artisti, le associazioni civili e religiose.

Gli anniversari talvolta possono servire come spunto di riflessione. Oggi, mentre si consuma la cosiddetta “intifada dei coltelli”, a vent’anni da quelle aperture di pace israeliane e da quell’ondata di terrorismo palestinese riproponiamo la cronaca che pubblicammo, allora, sul mensile della Comunità ebraica di Milano. La dedichiamo a quelli che “la violenza palestinese è causata dalla disperazione per la mancanza di prospettive di pace”; quelli che “è tutta colpa dell’intransigenza di Israele e del governo Netanyahu”; quelli che “per fare la pace bisogna fare pressione su Israele, criticarlo e isolarlo”; quelli che “se solo Israele facesse qualche concessione, il terrorismo scomparirebbe e la pace sarebbe fatta”.

Vent’anni fa, come oggi, non è la mancanza di speranza che provoca il terrorismo: è il terrorismo che uccide la speranza, e ogni concreta possibilità di riconciliazione.

Bollettino della Comunità Ebraica di Milano, aprile 1996 (clicca per ingrandire)

Sul “18”, la domenica dopo

(Da: Bollettino della Comunità Ebraica di Milano, aprile 1996 – ora in: M. Paganoni, Ad rivum eundem: Cronache da Israele, 2006, Proedi, Milano)

“Ho preso l’aereo per venire a Gerusalemme a prendere l’autobus”. Questo, nella efficace sintesi fatta da una partecipante di Milano, il significato dell’iniziativa lanciata dalla Federazione delle Associazioni Italia-Israele che ha visto un gruppo di italiani recarsi a Gerusalemme, domenica 10 marzo 1996, per salire sull’autobus numero 18.

Per due domeniche consecutive – il 25 febbraio e il 4 marzo 1996 – il terrorismo integralista palestinese aveva barbaramente colpito comuni cittadini israeliani, facendo esplodere le vetture di quella linea. All’orrore degli attentati si aggiungeva il senso insopportabile di una agghiacciante sequenza. È stato allora che è nata l’idea, un po’ folle, ma che si è subito diffusa attraverso il tam-tam delle associazioni Italia-Israele, delle organizzazioni ebraiche, degli amici vecchi e nuovi: domenica prossima anche noi saremo su quell’autobus.

Nell’arco di un paio di giorni l’iniziativa ha preso corpo e si è concretizzata: non una delegazione ufficiale né una delegazione di vip, bensì un gruppo di comuni cittadini, di ogni età e condizione, provenienti da un po’ tutta Italia (Milano, Roma, Bari, Torino, Udine, Brescia, Bergamo ecc.), in piccoli gruppi o alla spicciolata, spesso ospitati in fretta e furia, e con grande calore, nelle case di amici israeliani. Comuni cittadini che hanno improvvisamente deciso di lasciare per due o tre giorni i famigliari, gli impegni di lavoro, il riposo del fine settimana, sono saliti su un aereo e si sono dati appuntamento la mattina di domenica a Gerusalemme, in via Giaffa, di fronte al palazzo che fu delle Assicurazioni Generali, esattamente nel luogo del secondo, devastante attentato terroristico contro i viaggiatori della linea 18. Scopo: salire su quell’autobus, come utenti comuni, pagare il proprio biglietto e mescolarsi ai cittadini israeliani che sull’autobus devono per forza salire ogni giorno; per poi scendere, dopo alcune fermate, nel luogo del primo attentato, ripercorrendo a ritroso il “percorso della paura” disegnato dai terroristi.

“Qui non ci sono eroi – ha spiegato chi scrive, [allora] presidente della Federazione Italia-Israele, nell’illustrare l’iniziativa – come non erano eroi i passeggeri degli autobus colpiti. Qui c’è solo un gruppo di donne e di uomini liberi: liberi di riunirsi, liberi di esprimere solidarietà, liberi dalla tirannia del fanatismo, liberi dalla paura. Siamo venuti da uomini liberi in un paese libero, che non si lascerà terrorizzare. Pace significa anche poter viaggiare tranquillamente su un autobus, conducendo una vita serena e normale. Siamo venuti qui per salire sull’autobus e così, con questo semplice gesto quotidiano, contribuire a ricostruire un pezzetto di pace”.

Yedioth Ahronoth, 11 marzo 1996 (clicca per ingrandire)

Yedioth Ahronoth, 11 marzo 1996 (clicca per ingrandire)

“Si dice che non c’è due senza tre”, ha detto il vice sindaco di Gerusalemme David Cassuto il quale, dopo aver accolto al Municipio una delegazione degli italiani e averla fatta incontrare con il sindaco Ehud Olmert, ha voluto unirsi a tutto il gruppo nel luogo dell’attentato. E ha aggiunto: “Se riusciamo a spezzare la sequenza, a spezzare il sortilegio, allora spezzeremo anche la paura e il terrorismo non passerà. Noi lo combatteremo con tutti i mezzi a nostra disposizione”.

L’importanza della partecipazione della società civile in una manifestazione come questa di solidarietà e di impegno contro la violenza è stata sottolineata con forza da Adolfo Beria Di Argentine, il celebre magistrato già presidente del Tribunale di Milano, anche lui volato a Gerusalemme con l’Associazione Italia-Israele di Milano di cui è presidente. Beria Di Argentine, che negli anni di piombo fu in prima fila nella lotta contro il terrorismo, ha ricordato che “in Italia abbiamo vinto, prosciugando l’area del consenso attorno agli estremisti violenti. Da sempre sostengo la necessità di una strategia differenziata di fronte al terrorismo: al lavoro delle forze di sicurezza e a quello dell’intelligence, che sono indispensabili, deve affiancarsi la mobilitazione della cittadinanza. È la partecipazione della gente l’antidoto più efficace per isolare e battere i terroristi. Ecco il valore e il significato di questa manifestazione”.

Più tardi, anche l’ambasciatore italiano Giuseppe Panocchia, incontrando il gruppo di connazionali, ha detto che la loro presenza indica come la solidarietà di cui gode Israele “non sia solo dei governi ma anche dei cittadini”. E il vicedirettore del ministero degli esteri israeliano Yaakov Levi ha specificato che la delegazione di italiani è stata la prima giunta dall’estero per manifestare la propria solidarietà.

Dopo aver letto la lettera che il sindaco di Milano Marco Formentini ha affidato al gruppo di italiani perché la consegnassero al sindaco di Gerusalemme, e dopo aver sostato qualche istante in raccoglimento per rendere omaggio alla memoria dei cittadini che soltanto sette giorni prima, in quello stesso punto, avevano trovato la morte, il gruppo si è infine spostato alla fermata dell’autobus, accompagnato da un rappresentante della compagnia delle autolinee Egged, ed è salito sulla prima vettura numero 18 in arrivo.

Jerusalem Post, 11 marzo 1996 (clicca per ingrandire)

Jerusalem Post, 11 marzo 1996 (clicca per ingrandire)

E così, in un’atmosfera che si è fatta subito piena di allegria – quasi a dimostrare che la volontà di vita, di pace e di serenità è destinata a prevalere su qualunque disegno di violenza e di morte – l’autobus si è improvvisamente riempito di una folla varia e improbabile. C’era il socio della piccola associazione Italia-Israele che è partito entusiasta subito dopo aver ricevuto il primo fax e forse ha temuto fino all’ultimo di ritrovarsi da solo a quella fermata, e c’erano quelli venuti più numerosi e organizzati, con computer e telefonino. C’erano i membri di organizzazioni ebraiche, come il giovane Michele Di Veroli del Benè Berith di Roma e Giuseppe Franchetti, presidente della Federazione Sionistica, e i membri di associazioni cristiane, come suor Lucy del Sidic di Roma. C’erano gli amici di Israele-Italia, con il loro presidente Natan Ben Horin, e quelli della comunità italiana di Gerusalemme, con il presidente Beniamino Lazar, entrambi preziosissimi punti di riferimento, sul posto, per tutta l’organizzazione. C’erano Chicca Falcone e Bernardo Kelz del direttivo nazionale della Federazione Italia-Israele; c’erano Angelo Pezzana e Deborah Fait, i presidenti degli anni scorsi. C’era Yosh Amishav, il diplomatico che è stato a Roma due anni e non può più scordare gli amici italiani, e c’era Sara Fleiderman che, dopo tanti anni di attività alle relazioni esterne dell’organizzazione sionista, oggi guarda le associazioni di amicizia con occhio quasi materno. C’era Simone Paganoni, con le bandiere e lo striscione, e c’era Rodolfo Ballardini, che era già stato in Israele tre volte in due mesi ma ha voluto tornare lo stesso. C’era chi non veniva in Israele da tanti anni e chi vi si è stabilito da pochi mesi. C’erano i corrispondenti italiani, con i taccuini e i microfoni tesi, e i fotoreporter israeliani che scattavano in continuazione, senza capire più una parola di quello che veniva detto in questo autobus divenuto d’un tratto così rumorosamente italiano. E poi c’erano gli abitanti di Gerusalemme: una giovane soldatessa, qualche anziano immigrato, alcune mamme con i piccoli, un paio di religiosi, l’autista perplesso. “Era da due settimane che questo autobus non viaggiava così pieno”, ci dice sorridendo un signore di mezza età. Per noi è un impegno: che gli autobus d’Israele non restino mai vuoti.

(Da: informazionecorretta.com, 21.3.16)