Dibattito in pubblico sull’Iran: un esercizio inutile (e dannoso)

Talvolta una democrazia deve avere il coraggio di delegare la decisione a chi ne ha la responsabilità.

image_3279Scrive Hirsh Goodman (sul Jerusalem Post): «Tutto è iniziato con un articolo dell’editorialista Nahum Barnea sulla prima pagina di Yediot Aharonot della scorsa settimana in cui si lasciava intendere che il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il ministro della difesa Ehud Barak, a dispetto della totale opposizione dell’establishment della difesa, sarebbero decisissimi ad attaccare gli impianti nucleari iraniani. Dopodiché la faccenda si è paradossalmente trasformata in una dibattito pubblico sul fatto se fosse opportuno o meno un dibattito pubblico su questo tema, con i media che facevano a gara a pubblicare nuovi titoli e punti di vista su una materia che, in un modo o nell’altro, domina da più di una settimana le prime pagine dei giornali israeliani. Il tutto è culminato con un sondaggio d’opinione pubblicato da Ha’artez da cui emerge che il 41% degli israeliani sarebbe favorevole a un attacco all’Iran, il 39% sarebbe contrario e il 20% si dichiara indeciso, un dato quest’ultimo assai sorprendente in un paese dove ognuno si sente primo ministro o perlomeno capo di stato maggiore. Ma non ci può essere alcun dibattito pubblico su questo argomento perché il pubblico non è in condizione di giudicare i costi e i benefici di una tale operazione. Il pubblico non sa quali sarebbero i bersagli coinvolti, quanti civili potrebbero restare vittime, quale potrebbe essere la reazione dell’Iran. Il pubblico che viene sollecitato a dibattere i pro e contro di un attacco all’Iran non è a conoscenza di informazioni fondamentali circa la capacità dell’Iran di sferrare un eventuale “second-strike” (reazione di rappresaglia), delle valutazioni su come reagirebbero americani ed europei, nonché egiziani, giordani e turchi. Il pubblico non ha la minima idea di quali e quante informazioni dispongano i servizi segreti, se ne dispongono, su altre potenziali conseguenze di un tale attacco, come la possibilità che l’Iran sferri contro l’occidente una campagna di terrorismo nucleare, o di attentati convenzionali su metropolitane e altre strutture sensibili, volta ad infiammare odio e demonizzazione di Israele per trasformare gli amici dello stato ebraico in nemici giurati. Il pubblico sa poco o nulla degli aspetti operativi di un tale attacco, dei reali rischi che comporta, dei limiti e delle conseguenze di un eventuale successo e di un eventuale fallimento. Fare sondaggi d’opinione su una tale materia è ridicolo, e rasenta l’assurdo almeno quanto chiedere alla gente se vuole o meno cedere il Golan senza dire a quali condizioni, con che tempi e con quali garanzie. Se si colpiscono i siti nucleari iraniani – un’operazione che, ci dicono gli esperti, richiederebbe giorni per essere fatta in modo efficace – che dire allora dell’aviazione e dell’esercito iraniani, e dei siti missilistici iraniani, e del quartier generale militare, e di tutte quelle sorpresine da fine del mondo che hanno le Guardie Rivoluzionarie come i 50.000 razzi e missili in Libano, idem a Gaza? Il sondaggio pubblicato da Ha’aretz non è altro che una inutile stravaganza giornalistica.»
(Da: Jerusalem Post, 3.11.11)

Scrive Yehezkel Dror (su Ha’aretz): «In termini di principi democratici, il dibattito pubblico su un’eventuale attacco israeliano agli impianti nucleari iraniani è giustificato a condizione che non causi gravi danni alla diplomazia israeliana e che non richieda di rivelare informazioni segrete. Ma il dibattito attualmente in corso è un esercizio ritualizzato e inutile. In realtà, è impossibile prendere seriemente posizione sulla materia senza conoscere i fatti. Conta sapere la vera posizione assunta da paesi che sono importanti per Israele, nonché le valutazioni dell’intelligence e le varie opzioni operative. Pertanto la sola conclusione che si può trarre dai sondaggi d’opinione che chiedono alla gente se sia favorevole o contraria a un attacco israeliano è che il livello del dibattito sulla questione è troppo superficiale. L’unica risposta appropriata è: “Non dispongo delle informazioni necessarie per esprimere un’opinione”. Il fatto che questo dibattito pubblico sia così inconsistente riguarda anche le dichiarazioni fatte da alcuni ex alti funzionari della sicurezza. In teoria costoro avrebbero il diritto ed anche il dovere di mettere il pubblico a parte delle loro opinioni su un tema così importante, se è possibile farlo senza rivelare informazioni confidenziali e senza recare danno alla sicurezza e alla politica estera del paese. È questo il caso di un autentico dibattito pubblico che può influenzare le decisioni che vengono prese. Per contro, non c’è nulla da guadagnare dal fatto che ex alti funzionari dichiarino quello che pensano su una data questione se si tratta solo di un dibattito ritualizzato in cui la gente non ha gli elementi per decidere. Sarebbe molto meglio che cercassero di esercitare la loro influenza sui decisori dall’interno, anziché fare un gran polverone sulla scena pubblica. Per vedere meglio la differenza fra un dibattito di sostanza e un dibattito futile si può confrontare la questione Iran con un’altra questione non meno importante: il processo di pace. La decisione se sia opportuno per Israele cedere parti della Cisgiordania e dividere Gerusalemme in cambio di un accordo di pace si presta a un dibattito pubblico, così come la decisione se sia meglio focalizzarsi sui rapporti con i palestinesi o mirare piuttosto a un accordo regionale complessivo. È importante che questioni come queste vengano dibattute. Sebbene anche il processo di pace comporti complesse considerazioni sulla sicurezza, non si può paragonare al livello di segretezza necessario in questo caso con quello necessario in tutto ciò che ha concerne l’Iran. Sul processo di pace, inoltre, ex alti esponenti politici e della sicurezza sì che dovrebbero dichiarare quel che pensano e perché, contribuendo in questo modo ad un serio dibattito pubblico. Un dibattito pubblico sul processo di pace, e sui valori ad esso associati, può e deve influire su un eventuale referendum nazionale, così come sui voti della Knesset e sulle delibere del governo. Il che lo rende un dibattito di sostanza, a differenza della discussione su un attacco all’Iran. A differenza del processo di pace, nel caso dell’Iran i leader d’Israele – in conformità con i principi della democrazia rappresentativa e sulla base delle specifiche caratteristiche del tema Iran – devono assumersi la responsabilità di prendere una decisione al meglio delle loro capacità di giudizio, senza farsi influenzare dai mass-media, dal discorso pubblico o dai partiti politici. Sono propenso a ritenere che vi siano non più di 10 o 15 persone in Israele che hanno tutte le informazioni essenziali per prendere una decisione ponderata sulla questione Iran, tra queste il primo ministro, il ministro della difesa e due o tre consiglieri e consulenti professionali. Il che mi porta a una conclusione ardua ma ineluttabile: la storia sta mettendo Israele di fronte a una di quelle sfide cruciali in cui la decisione di pochi è verosimilmente destinata a influire grandemente sul futuro di molti. Non è una situazione auspicabile dal punto di vista dei valori democratici, e non è priva di pericoli. Si tratta di una situazione rara, ma certamente non unica nella storia, specialmente all’ombra delle armi di distruzione di massa. Basti ricordare la risposta dell’allora presidente americano John F. Kennedy al dispiegamento di missili sovietici a Cuba nel 1962. Per fortuna, nonostante tutte le giustificate critiche ai leader d’Israele su questioni come il processo di pace e la politica sociale, non vi è alcun dubbio sulla loro totale dedizione alla sicurezza del paese (che è sicurezza esistenziale, dunque di tutti i suoi cittadini dal primo all’ultimo), sulla loro competenza in fatto di questione iraniana e sulla loro capacità di prendere decisioni razionali. In ogni caso, la decisione è necessariamente nelle loro mani. Si può solo sperare che il dibattito in pubblico, che certamente non contribuisce a facilitare le cose, perlomeno non faccia troppo danno.»
(Da: Ha’aretz, 07.11.11)

Nelle foto in alto: Hirsh Goodman e Yehezkel Dror, autori di questi articoli