“Diciamolo, la cosa che li eccita davvero è Israele”

Apertamente ammesso il pregiudizio anti-Israele di enti come Human Rights Watch.

Di Petra Marquardt-Bigman

image_2830Lo scorso aprile, il New Republic ha pubblicato un servizio in cui indagava le accuse di manifesto pregiudizio anti-israeliano a carico dell’attività di Human Rights Watch. Un mese prima, il Sunday Times aveva pubblicato un articolo analogo, al quale Human Rights Watch aveva apparentemente risposto chiedendo un certo numero di chiarificazioni e correzioni, a loro volta messe in discussione, nella sezione commenti del giornale, da un ricercatore di NGO Monitor (“Non-governmental Organization Monitor”).
Per quanto riguarda i contenuti, entrambi gli articoli contengono troppi dati interessanti per poter essere qui riassunti in modo adeguato. C’è un punto, però, che può servire ad illustrare il quadro complessivo che emerge dai due servizi, ed è il fatto che entrambi riportano delle dichiarazioni in cui viene apertamente amesso il pregiudizio di Human Rights Watch contro Israele.
L’articolo di New Republic cita un membro del Consiglio di Human Rights Watch che ammette: “Penso che noi tendiamo ad andare là dove c’è azione e dove otteniamo una reazione. […] Noi cerchiamo le luci della ribalta, il che è parte della nostra attività. E così, Israele è un po’ come un frutto facile da cogliere”. L’articolo del Sunday Times cita un anonimo esperto di diritti umani che opera per un’organizzazione di Washington, il quale sostiene che un elemento preso in considerazione nel decidere su quale tema concentrarsi è “come verrà usato politicamente a Washignton”. Secondo questa persona, c’è anche la questione di chi Human Rights Watch consideri “il cattivo che è nel loro interesse mettere in rilievo”; e offre infine la sua valutazione: “Diciamo la verità, la cosa che li eccita davvero è Israele”. Entrambe queste citazioni dimostrano il ruolo enorme che gioca la pubblicità per Human Rights Watch: in altre parole, Human Rights Watch fa affidamento sui mass-media per amplificare il suo messaggio, e sa fin troppo bene che cosa si vende bene ai mass-media.
In questo contesto, è avvincente la lettura di uno studio recentemente pubblicato col titolo “A Media Eclipse: Israel-Palestine and the World’s Forgotten Conflicts” (Eclissi dei mass-media: Israele-Palestina e i conflitti dimenticati del mondo). L’autore, Noah Bernstein, non può certo essere tacciato di mostrare alcun preconcetto a favore di Israele. Al contrario, è chiaro che è animato da una appassionata e idealistica preoccupazione per i diritti umani. Il suo ben documentato articolo parte da un crudo confronto fra la copertura mediatica di due conflitti concomitanti:
«In un arco di 48 ore a partire dalla vigilia di Natale del 2008, il Lord’s Resistance Army (Esercito della Resistenza del Signore), fondamentalista cristiano, uccise, smembrò e bruciò almeno duecento civili congolesi. I soldati stuprarono donne e ragazzine, torsero la testa ai neonati e mozzarono labbra e orecchi a coloro che non avevano ucciso. Gli altri vennero fatti a pezzi a colpi di ascia e di machete. Bambini soldato aiutarono a rapire altri bambini destinati alla stessa sorte. Negli stessi giorni il governo israeliano e i rappresentati di Hamas si avviavano verso le fasi finali di colloqui senza successo per un cessate il fuoco. La guerra si profilava all’orizzonte, ma non era ancora iniziata. Un razzo di Hamas fuori traiettoria uccideva due sorelle di Gaza: non fosse stato per queste, in quelle 48 ore non si registrarono altre vittime di scambi a fuoco lungo il confine fra Israele e striscia di Gaza. Secondo l’AlertNet’s World Press Tracker, i mass-media internazionali si occuparono quaranta volte di quei due giorni di stallo israelo-palestinese. Non ci fu invece neanche un servizio sul massacro del Lord’s Resistance Army nella Repubblica Democratica del Congo. Nel corso delle tre settimane che seguirono, la campagna militare anti-Hamas di Israele nella striscia di Gaza lasciava sul terreno 926 palestinesi e 3 civili israeliani morti. I mass-media internazionali si occupavano di questi eventi 2.896 volte. Nelle stesse tre settimane, il Lord’s Resistance Army di Joseph Kony uccideva altri 865 civili e rapiva 160 bambini. I mass-media si occupavano di questi fatti venti volte in totale».
Bernstein passa poi a esaminare come si possa spiegare una così vistosa sproporzione nella copertura mediatica del conflitto israelo-palestinese, e respinge alcune delle “ragioni” che vengono spesso avanzate per sostenere che l’attenzione ossessiva su israeliani e palestinesi sarebbe giustificata. Nel corso della sua analisi, offre una ricchezza di dati che suggeriscono alcuni confronti scioccanti. E argomenta: le sofferenze dei palestinesi “non dovrebbero mettere in ombra le sofferenze degli altri 35 milioni di profughi all’estero e dei 24,5 milioni di sfollati interni in giro per il mondo. Sono oppressi milioni di profughi nell’Africa centrale che vivono nel costante terrore per gli attacchi di ribelli e del governo. Sono oppressi milioni di sfollati birmani con poca o nessuna libertà, compresa quella di lasciare il loro paese. Eppure le loro sofferenze ricevono rarissima attenzione dai mass-media internazionali”.
Nota Bernstein: «Dal 1980, i morti civili nel conflitto dello Sri Lanka sono stati cinquanta volte quelli del conflitto israelo-palestinese, il Kashmir ha visto un numero di civili uccisi cento volte più grande, e il conflitto nella Repubblica del Congo ha mietuto un numero di vite umane cinquemila volte più grande del conflitto israelo-palestinese. Ma il costo in vite umane non è l’unico indicatore di una oppressione. Vi sono altri indici che si possono usare per contestualizzare la sofferenza umana. Ad esempio, l’indice di sviluppo umano delle Nazioni Unite, che misura salute istruzione e standard di vita, classifica i territori palestinesi al di sopra di tutti i paesi dell’Africa sub-sahariana, Sudafrica compreso.»
Bernstein conclude dicendo che, in ultima analisi, “non vi è giustificazione per la copertura mediatica preferenziale delle violazioni dei diritti umani nel conflitto israelo-palestinese”; e afferma un concetto importante quando dice che “la conseguenza immediata del pregiudizio su questo conflitto è un’ulteriore polarizzazione di un divario già fragile, e l’esportazione della sua politica incendiaria nel resto del mondo”.
Il punto debole più evidente dell’appassionata requisitoria di Bernstein contro l’ossessiva attenzione dei mass-media sul conflitto israelo-palestinese sta nel fatto che è poco realistico aspettarsi che i mass-media trascurino le considerazioni commerciali e si sentano obbligati a trattare in modo equo di tutte le violazioni di diritti umani. Allo stesso tempo, tuttavia, l’analisi di Bernstein mostra nel modo più netto quanto sia poco etico che organizzazioni come Human Rights Watch perseguano cinicamente “le luci della ribalta”, alimentando la frenesia dei mass-media che si appunta su conflitti che possono essere coperti senza troppi fastidi per i reporter e che si vendono sempre molto bene al pubblico, il quale appare interessato alle violazioni dei diritti umani soprattutto quando si può darne la colpa ad ebrei.
Vale la pena notare, in questo contesto, che l’articolo di New Republic riporta una citazione assai illuminante di Sarah Leah Whitson, che dirige la divisione MENA (Medio Oriente e Nord Africa) dell’organizzazione. Viene riferito che una volta la Whitson, in uno scambio di e-mail a difesa dell’attivista anti-israeliano Norman Finkelstein, scrisse: “Continuo a provare enorme rispetto e ammirazione per lui perché, come probabilmente sapete, mettere gli abusi di Israele al centro del lavoro di tutta una vita è un compito ingrato, ma coraggioso, che finirebbe col lasciare profondamente amareggiato chiunque di noi”. Stando al website di Human Rights Watch, la divisione MENA comprende Algeria, Bahrain, Egitto, Iran, Iraq, Israele e Territori Occupati [compresa la striscia di Gaza], Giordania, Kuwait, Libano, Libia, Marocco/Sahara occidentale, Qatar, Arabia Saudita, Siria, Tunisia, Emirati Arabi Uniti e Yemen. Una cosa è certa: ad eccezione di Israele, la signora Whitson potrebbe riscontrare in tutta questa regione infiniti plausi e apprezzamenti per chiunque metta “gli abusi di Israele al centro del lavoro di tutta una vita”: un compito che è dunque arduo definire “ingrato”. Ed è arduo anche definirlo “coraggioso”, giacché consiste semplicemente nell’assecondare un sentimento che avvelena l’intera regione da molti decenni.

(Da: Jerusalem Post, blog “Warped Mirror”, 9.5.10)

Nella foto in alto: Petra Marquardt Bigman, autrice di questo articolo