Dittatori arabi: boss mafiosi a capo di regimi tribali

Ecco perché Assad non potrà mai rinunciare al potere, e il massacro siriano non accenna a diminuire

Di Salman Masalha

Salman Masalha, autore di questo articolo, è poeta e scrittore arabo israeliano della comunità drusa. Insegna Lingua e Letteratura Araba all’Università di Gerusalemme

“Cosa sta succedendo in Siria?” ho chiesto a Fuaz, un musicista siriano in esilio che ho incontrato a Parigi di recente. “La verità è che non lo so”, è stata la sua sintetica risposta. Non sembrava il tipo il cui gusto per la vita possa essere spento dagli orrori della guerra civile nel suo paese. Quando la sua casa è stata danneggiata, ha trovato rifugio con decine di altri civili in un vecchio bagno turco nella città vecchia di Aleppo. Lì, in un angolo dell’edificio, ha messo in piedi da sé uno studio e ha deciso di documentare la musica tradizionale siriana. “Io sono un musicista – mi ha spiegato – Questo è il mio contributo alle future generazioni, nella speranza che abbiano a venire giorni migliori”. Circa sei mesi fa, quando i bombardamenti si sono avvicinati, Fuaz ha preso la decisione definitiva di partire. Per come la vede lui, sia il regime siriano che le forze dell’opposizione hanno la stessa mentalità. “Non basta liberarsi dei capi del regime – mi ha detto convinto – È anche necessario sbarazzarsi di tutta la mentalità dominante”. Sulla strada per lasciare la Siria si è visto passare davanti la distruzione. “Attraverso il finestrino della macchina la distruzione era evidente: decine di chilometri di case distrutte. Impossibile esprimerlo a parole, bisogna vederlo con i propri occhi per rendersi conto delle dimensioni della distruzione in Siria”.

«Decine di chilometri di case distrutte. Impossibile esprimerlo a parole»

«Decine di chilometri di case distrutte. Impossibile esprimerlo a parole»

In effetti nelle dittature arabe, tribali e settarie, non viene attribuito nessun valore allo Stato e alle persone. Là dove le lealtà tribali e di setta sono più importanti di qualsiasi altra appartenenza, le persone non hanno alcun sentimento di far parte di un popolo o di un paese. In uno Stato tribale, le persone possono andare all’inferno. A centinaia di migliaia possono perdere la vita, a milioni possono essere sradicate dalle loro case, sparpagliandosi da profughi in ogni direzione: niente di tutto questo fa la minima impressione al capo tribale. Non c’è spazio per nessun esame di coscienza, in una struttura sociale tribale di questo tipo, perché sarebbe percepito come un segno di debolezza. Il che si tradurrebbe inesorabilmente nella perdita delle redini del potere insieme alla perdita dell’egemonia tribale, del controllo del paese e delle sue risorse. Anche il termine arabo “dawla”, che significa “dinastia”, deriva dalla tradizione tribale e implica il declino di una tribù e l’ascesa di un’altra. E ha sempre comportato l’eccidio dei membri della tribù perdente e dei suoi alleati.

I dittatori di questo genere vivono nella paura perenne. Di conseguenza affidano tutte le posizioni chiave – sia militari che economiche – a una ristretta cerchia tribale di figli, fratelli, zii e cugini. La disfatta delle armate di un altro autocrate arabo non fa alcuna impressione. Un dittatore di questo genere non deve vedersela con la prospettiva di una pubblica commissione d’inchiesta. Finché è vivo, continuerà a proclamare la vittoria e la sconfitta dei “complotti sionisti e imperialisti” orditi per rovesciarlo.

«Centinaia di migliaia di morti, milioni di rifugiati non lo smuovono di un millimetro»

«Centinaia di migliaia di morti, milioni di rifugiati non lo smuovono di un millimetro»

Fu così con Saddam Hussein, il macellaio di Baghdad, scappato a nascondersi nella sua regione tribale. Il macellaio di Damasco, il presidente Bashar Assad, è un caso simile. Centinaia di migliaia di morti e feriti, milioni di rifugiati e la distruzione di intere città non lo smuovono di un millimetro. Giacché nella mente di questi dittatori il principio “l’Etat c’est moi” (“lo Stato sono io”) è scolpito nella pietra. O come dicono i suoi seguaci, la scelta è: o Assad, o la distruzione eterna.

L’uomo al comando di questa mafia tribale non ha intenzione di cambiare modi. Tutta la sua esistenza si basa sull’imposizione del terrore. Qualsiasi rilassamento in questo apparato segnerebbe la fine del suo regime, e può facilmente significare la sua stessa fine nel senso più fisico del termine. La soppressione spietata è un aspetto intrinseco di questo genere di regime sociale. Avete presente Gheddafi?

Come altri dittatori prima di lui, Assad ha accettato di rinunciare alle strategiche armi chimiche perché aveva un coltello alla gola. Sul fronte interno descrive la scelta come una vittoria che ha sventato il complotto imperialista contro il suo governo anti-imperialista. Dal suo punto di vista, restare al potere è più importante di qualsiasi altra cosa: certamente più importante della Repubblica siriana e dei suoi cittadini, che lui fa ammazzare senza batter ciglio. Nel prossimo futuro assisteremo all’emergere di un nuovo discorso nel mondo arabo, con tutti a parlare del diritto dei profughi siriani di tornare in patria. Ho i miei dubbi che possano tornare in case di cui non resta più traccia. Ecco a voi l’antico Medio Oriente: il glorioso, vecchio, pessimo Medio Oriente.

(Da: Ha’aretz, 14.10.13)